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La Stagione d’opera e balletto del Verdi si è conclusa con Turandot, titolo amatissimo dai triestini che hanno affollato ogni ordine di posti , tributando un franco successo ad allestimento ed interpreti.
Diciamo subito che il trascorrere delle recite ha migliorato gli equilibri musicali.
Il direttore, Jordi Bernàcer, nella prima delle due recite cui abbiamo assistito, aveva scelto volumi orchestrali decisamente imponenti, concitati, prevaricanti sulle voci , costringendo di fatto gli interpreti a spingere sulle voci e mettendo alcuni di loro in difficoltà.
Con il passare degli spettacoli i pesi si sono riequilibratisono cambiati, a tutto vantaggio della lettura della partitura, che si è fatta più elegante, ricca di suggestione e di una narrazione struggente, che ha messo in evidenza la bella prova anche dell’orchestra coadiuvata per l’occasione dalla Civica Orchestra di Fiati ‘G.Verdi’-Città di Trieste., .
Di grande impatto la prova del coro, diretto come sempre da Paolo Longo,che offre anche una buona resa scenica, con movimenti abilmente coordinati alla narrazione musicale.
Affidabili e preparati I Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Maria Cristina Semeraro,
Passando alle voci, brillano nei ruoli minori sia il principe di Persia stentoreo e dalla vocalità squillante di Massimo Marsi che le suggestive ancelle della sempre appropriata Federica Guina, che ritroviamo con piacere in parti solistiche e dell’elegante Luisella Capoccia.
Convince meno, nonostante una partenza sicura, l’ Altoum di Gianluca Sorrentino, che man mano che lo spettacolo avanza risulta sempre meno udibile.
Italo Proferisce è un lussuoso Mandarino, dalla voce solida e dalla carismatica recitazione.
Molto brave le tre maschere, che caratterizzano i ruoli senza scivolare mai nello stucchevole. Saverio Pugliese è un Pang dalla voce solida, potente nel suono e ricca di un colore personale .
Pong è Enrico Inviglia, sempre raffinato vocalmente e misurato scenicamente.
Nicolò Ceriani è un sontuoso Ping, reso con voce stentorea, una bella tavolozza di sfumature e grande sicurezza scenica.
Nelle altre parti si alternavano due compagnie.
Nella parte di Timur non brilla Marco Spotti, interessante scenicamente ma vocalmente poco brillante, mentre Gabriele Sagona, riesce a trovare per il vecchio imperatore esule , un colore intenso, un canto appropriato, graffiato dalle vita, credibile e straziato.
Liù ha più fortuna scenicamente che vocalmente. Ilona Revolskaya ha una voce scura, suggestiva negli acuti, ma incerta nella pronuncia, spesso coperta dall’orchestra, con un suono vibrato e poco omogeneo. Angela Nisi, con una voce più corposa, dopo una partenza un po’ generica, riesce a commuovere con una intensa interpretazione della seconda aria.
Calaf ha due interpreti dalle caratteristiche differenti, ma entrambi credibili e molto apprezzati dal pubblico.
Amadi Lagha è tenore generoso, con fiati ampi, un bel colore ed acuti facili e squillanti, che non hanno difficoltà ad emergere dall’’irruenza sonora voluta dal direttore.
Il Calaf che propone è un giovane, che vuole riappropriarsi della sua vita, spavaldo e sicuro di sé, capace di alternare momenti di solida irruenza a pagine di delicata intensità , come l’intenso ‘Nessun Dorma’,premiato da ovazioni e richieste, non accolte, di bis.
Carlo Ventre, ritorna dopo qualche anno al Verdi, a quasi un quarto di secolo dalla prima apparizione triestina.
La voce è potente, con fiati lunghissimi, acuti senza cedimenti e dal colore personale, in grado di unire l’opulenza del suono alla capacità di commuovere.
Il suo un principe determinato, che spiega con il dispiego sonoro la sua volontà di conquistare Turandot.
Non è un macho arrogante, quanto piuttosto un uomo stanco della vita, che ha deciso di giocarsi il futuro in nome di una svolta in assenza della quale preferisce la morte. I suo sguardi tristi sono racconti di delusioni subite, umiliazioni patite, di frasi che ha dovuto inghiottire per sopravvivere, di strade che non ha potuto percorrere. Adesso è stanco, si ritrova davanti un padre quasi morente, che invece che rallegrarlo per il fortuito incontro , lo mette ancora una volta davanti al futuro, apparentemente destinato alla polvere.
Calaf forse non si innamora tanto della principessa, quanto della riacquistata voglia di dignità.
Turandot è parte di grande complessità, scenica e vocale. Entrambi i soprano sono stati all’altezza delle aspettative.
Kristina Kolar, che già aveva cantato questo ruolo a Trieste, si è confermata una Principessa credibile, solida ed aspra, che ha alzato una barriera per dimenticare i sentimenti, almeno fino alla morte di Liù, quando il baluardo virginale , magnificamente metaforizzato dai costumi di Danilo Coppola, comincia a cadere a pezzi.
Maida Hundeling ha superato le difficoltà della dizione con una recitazione coinvolgente e sicura, che testimonia il lavoro di commovente intensità svolto dalla regia.
Il soprano, all’esordio in Italia in questo ruolo, ricca di un mezzo vocale sontuoso, sprezzante negli acuti, solido in tutti i registri, è stata anche capace di momenti di grande intensità, come quando supplica il padre, con un suggestivo canto a fior di labbra, di scioglierla dal giuramento del matrimonio.
Dal punto di vista narrativo risulta struggente il duetto di sguardi fra Turandot e Lo-u-ling, mentre Liù canta ‘ Tu che di gel sei cinta’: la scoperta della consapevolezza di non aver capito cosa fosse l’amore.
Una bella pagina di teatro, che riesce a dare un senso alla scelta di chiudere l’opera sull’ultima nota scritta da Puccini.
finiamo parlando dell’aspetto visivo.
Paolo Vitale, autore anche del suggestivo disegno luci, ha ripreso le strutture che aveva ideato per l’edizione di quattro anni fa, rinnovandole ed integrandole con proiezioni eleganti, mai prevaricanti e giocando con un sistema di griglie mobili che bene raccontano il disagio del popolo di Pechino.
Lo scenografo ha dimostrato una importante conoscenza delle caratteristiche del palcoscenico giuliano, evitando tutte le aree dall’acustica sfavorevole e consentendo al regista di giocare efficacemente sui più livelli nei quali ha articolato l’azione.
I costumi, ideati da Danilo Coppola , sono suggestivi e ricchi di spunti: neri per il popolo, bianchi, arricchiti di frammenti di porcellana, per la corte imperiale, che sembra abitare in una dimensione atemporale, mitica e metafisica.
Il gioco di rimandi è raffinatissimo, perché in Oriente il bianco assume significati ben più drammatici che in Europa: ancora una volta le certezze cadono a pezzi, siamo disorientati, facciamo fatica a capire: come Turandot, che non capisce cos’è l’amore, come Calaf che non accetta la sorte.
Quando i pezzi di costume cadono, sembra quasi che inizi un viaggio di purificazione, che condurrà, coloro che avranno la forza e la tenacia di farlo, ala scoperta di se stessi.
Le fila dello spettacolo sono rette da Davide Garattini Raimondi, coadiuvato da Anna Aiello , che ha regalato una regia di grande presa, ricca di riferimenti, suggestioni, citazioni.
Uno di quei lavori che hanno il pregio raro di non lasciarti indifferente, di non scorrere mai per inerzia, ricchi di stimoli, articolati su più piani di lettura, tinteggiati con una grande tavolozza di riferimenti teatrali, cinematografici, letterari, storici, in un rincorrersi di suggestioni: dall’accartocciarsi delle maschere mute, metafora della rinuncia all’identità, al ritmo da catena di montaggio dei pacchi che scorrono di mano in mano fra i rappresentanti del popolo; dalle proiezioni di volti che non riescono a concretizzare una fisionomia duratura.
Un’opera che era fuori dal tempo ma assolutamente attuale, coerente, in grado di emozionare profondamente chi riusciva a coglierne la poesia. Una Turandot simbolica ed intensa, che scava nella memoria di tutti e di ognuno, che forse una lettura musicale meno irruenta, almeno per le prime repliche, avrebbe premiato con una suggestione ancora più ampia, vista la bellezza delle voci coinvolte.
Impossibile non domandarsi se la scelta di fermarsi alla morte di Liù sia la migliore possibile.
Da un lato la soluzione ha delle motivazioni storico-musicali e risulta di una certa suggestione.
Dall’altro la storia, peraltro riportata nella sua interezza, per trama e testo, sul programma di sala, assume un valore narrativo decisamente diverso con il trionfo dell’amore, che non va visto tanto come un lieto fine mieloso, quanto come la scelta di aprirsi alla vita, rifiutando stereotipi e censure.
Alla fine copiosi applausi per tutti ed ovazioni per Lagha, autentico trionfatore della prima compagnia e, per la coppia dei protagonisti della seconda: Maida Hundeling e Carlo Ventre.
Gianluca Macovez
14 e 20 maggio 2023
informazioni
TURANDOT
Musica di Giacomo Puccini
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Edizioni Casa Ricordi, Milano
Maestro Concertatore e Direttore JORDI BERNÀCER
Regia DAVIDE GARATTINI RAIMONDI
Scene e disegno luci PAOLO VITALE
Costumi DANILO COPPOLA
Assistente alla regia e movimenti scenici ANNA AIELLO
Personaggi e interpreti
Turandot KRISTINA KOLAR / MAIDA HUNDELING
Calaf AMADI LAGHA / CARLO VENTRE
Liù ILONA REVOLSKAYA / ANGELA NISI
Timur MARCO SPOTTI / GABRIELE SAGONA
Ping NICOLO’ CERIANI
Pang SAVERIO PUGLIESE
Pong ENRICO IVIGLIA
L’imperatore Altoum GIANLUCA SORRENTINO
Mandarino ITALO PROFERISCE
Prima ancella FEDERICA GUINA
Seconda ancella LUISELLA CAPOCCIA
Il principe di Persia MASSIMO MARSI
Con la partecipazione del coro I Piccoli Cantori della città di Trieste diretti dal M° CRISTINA SEMERARO e della CIVICA ORCHESTRA DI FIATI “G. VERDI” – CITTÀ DI TRIESTE
ALLESTIMENTO DELLA FONDAZIONE TEATRO LIRICO GIUSEPPE VERDI DI TRIESTE
Maestro del Coro PAOLO LONGO
ORCHESTRA, CORO E TECNICI DELLA FONDAZIONE TEATRO LIRICO GIUSEPPE VERDI DI TRIESTE