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Alle Tosche genovesi mi lega una lunga striscia di rappresentazioni iniziata nell’autunno del ’72. Una sera piovosa, un impermeabile bianco e una coda alla biglietteria del Politeama Margherita per prendere gli ultimi posti, dopo una corsa in autostrada da Livorno, strippati in tre in una Cinquecento. Dovevamo andare in treno, ma un ritardo selvaggio e imprecisato ci fece cambiare mezzo di locomozione. D’altronde non potevamo mancare, a diciotto anni Raina la vedevi come un miraggio. Dunque, Genova per noi, e via. Io, Guido e Guglielmo, allegra brigata di quei tempi. Da allora ce ne ho messe una gerla piena di Tosche genovesi, alcune anche memorabili e tali da formare una luminosa galleria degli antenati.
Chiuso il cassetto dei ricordi che altre volte ho aperto su queste colonne senza fare neanche un nome, che cosa diremo agli amici (ah, Pavese!) che leggono?
Questa Tosca al Carlo Felice ha dato un’impressione generale di solidità. La produzione rispolverava un allestimento firmato da Livermore nel 2014, ripreso adesso in regia da Alessandra Premoli. Piacque allora e resiste oggi, anche se mi è parso invecchiatello e come ebbi già a pensare, è un po’ faticoso per i cantanti che spesso agiscono lontano e in posizioni scomode.
Pier Giorgio Morandi dirige con mano esperta, ma senza grandi voli anche in ragione dell’improvviso cambio della protagonista. Oksana Dyka, chiamata a rimpiazzare Maria José Siri, ha cantato con generosità, risultando più centrata negli incandescenti passi del secondo atto che nei momenti di gran lirismo; Riccardo Massi, Cavaradossi, è cresciuto nel corso della serata fino al raggiungimento di un buon terzo atto; Amartuvshin Enkhbat, baritono del momento, ha messo in campo una voce certamente bella, ma è anche apparso più corretto che perversamente affascinante. Il resto del cast porgeva le consuete presenze di Matteo Peirone (Il Sagrestano) e Claudio Ottino (Sciarrone), il professionale Manuel Pierattelli (Spoletta), gli ottimi Dongho Kim (Angelotti) e Franco Rios Castro (Un Carceriere). Molto brava Maria Guano nella strofe del Pastorello durante il “mattutino” di Roma che apre il terzo atto. Pubblico folto, che è sempre un bel dato e applausi copiosi al termine.
di Fulvio Venturi