TOSCA
opera in tre atti di Giacomo Puccini
su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa
il libretto è tratto dal dramma storico La Tosca di Victorien Sardou
Direttore: Daniel Oren
Regia: Jonathan Kent ripresa da Simon Iorio
Scene e costumi: Paul Brown
Personaggi e interpreti
Floria Tosca Natalya Romaniw
Mario Cavaradossi Freddie De Tommaso
Barone Vitellio Scarpia Erwin Schrott
Cesare Angelotti Josef Jeongmeen Ahn
Sagrestano Jeremy White
Spoletta Hubert Francis
Sciarrone Thomas D. Hopkinson
Pastorello Madeleine McGhee
Carceriere John Morrissey
Luci Mark Henderson
Maestro del coro William Spaulding
Dopo i vari cappottoni neri, giacche militari e cantanti intenti ad affettar zucchine in cucine illuminate al neon, che ormai spopolano sui nostri palcoscenici, la Royal Opera House Covent Garden finalmente ci regala, in questi giorni pre-natalizi, il revival di una Tosca che mette in scena esattamente quello che lo spettatore si aspetta quando compra il biglietto. Infatti, la cifra caratterizzante di questa riproposizione londinese del capolavoro pucciniano è proprio l’aderenza alla tradizione, sia nella messa in scena che nella parte musicale. Una Tosca d’antan, sia nei pregi (molti) che nei difetti.
L’allestimento è quello, in linea con l’ambientazione e l’epoca originali, di Jonathan Kent con le scene e i costumi di Paul Brown, andato in scena nel 2006, riproposto regolarmente (e a ragione) dal Covent Garden e qui ripreso da Simon Iorio. Esso ha il pregio, e non è poco di questi tempi, di essere esteticamente appagante, di contribuire alla comprensione della vicenda e di esaltare l’atmosfera che caratterizza la musica, invece che andare in contrapposizione con essa. C’è tutto quello che dev’esserci: la chiesa barocca con il presbiterio sbarrato dalla cancellata e la scalinata ellittica che scende nella cripta ove è la cappella degli Attavanti, la cupa stanza di Scarpia con tanto di gigantesco arcangelo brandente la spada sul fondo (che, anche per la pianta circolare ricorda, appunto, più il piano nobile di Castel Sant’Angelo che Palazzo Farnese), il bastione della fortezza papalina reso con efficace semplicità. Le luci di Mark Henderson, dai toni soffusi e al lume di candela, conferiscono fin dall’inizio un’atmosfera scura, tragica, caravaggesca alle varie scene. Qualcosa di più si sarebbe potuto fare per quanto riguarda i movimenti scenici e il lavoro con i cantanti-attori. I personaggi hanno piuttosto la monotona tendenza a muoversi semplicemente avanti e indietro lungo il proscenio o su e giù per le scale. La scelta di concentrare le masse sul presbiterio al fondo del palco, senza farle muovere ad occupare tutto lo spazio scenico fa sì che l’impatto visivo della scena del Te Deum non sia così efficace come potrebbe essere. Manca in generale la cura dei piccoli gesti, dei passaggi fra un momento e l’altro, quell’approfondimento nello studio dei personaggi che avrebbero fatto veramente la differenza in uno spettacolo d’opera che pur rimane di ottimo livello.
Venendo alla parte musicale, Daniel Oren mostra una conoscenza e dominio assoluti di questa partitura che ha diretto ormai innumerevoli volte. Egli propone una direzione solida e compatta, mantenendo sempre un buon passo e sostenendo mirabilmente lo scorrere dell’azione scenica. L’orchestra della Royal Opera House sfoggia, sotto la sua bacchetta, un suono bello, sontuoso, espressivo, che risalta soprattutto nei molti momenti di grande sinfonismo eroico e drammatico di cui è costellata la partitura. Meno efficaci sono, a causa di tempi forse un po' troppo stretti, i passi più lirici nella prima metà del primo atto. Il direttore lascia ai cantanti lo spazio per esprimersi al meglio, a volte anche con il rischio di assecondarli un po' troppo, arrivando a tempi a volte strascicati e a qualche puntatura un po' troppo esagerata. Non molto efficace la prestazione del coro che, forse anche a causa della collocazione sul fondo del palco, non risulta molto incisivo nel Te Deum.
Per quanto riguarda il cast vocale, Natalya Romanyw, nel ruolo eponimo, possiede una voce brunita e mediterranea ed un temperamento che le permettono di affrontare la parte di Tosca con efficacia. Tuttavia, la tecnica non è sempre solidissima, con un canto non sempre ben legato, un’emissione non sempre fluida ed una dizione impastata che spesso la rende non intelligibile. In questo senso, il suo Vissi d’arte sconta, soprattutto nelle battute iniziali, più di qualche incertezza e financo qualche problema d’intonazione. La recitazione, generalmente buona, tende però talvolta al cliché. Il ruolo di Cavaradossi era affidato a Freddie De Tommaso, da molti definito un astro nascente del tenorismo odierno, che in Italia avremo presto modo di ascoltare nel Concerto di Capodanno alla Fenice di Venezia. Egli possiede una voce veramente notevole: grande, facile, solare, virile. Abbiamo di nuovo un tenore che canta all’italiana, in maniera schietta, diretta, senza superfetazioni ed intellettualismi, nella migliore tradizione dei tenori nostrani (l’influenza di modelli come Corelli e Lanza è fin troppo evidente). Tuttavia c’è ancora qualcosa da affinare. De Tommaso tende a cantare piuttosto ‘di fibra’, in maniera muscolare, il che lo porta in alcune occasioni a forzare, soprattutto nella zona acuta. La sua natura e il suo talento innato fanno sì che questo non abbia (per il momento) ripercussioni macroscopiche sulla resa vocale, ma nei momenti in cui si affida alla tecnica cantando sul fiato come in O Dolci Mani, la differenza si sente. Anche il fraseggio e il modo di porgere potrebbero essere a volte più eleganti e vi è anche qui, talvolta, la tendenza al cliché per quanto riguarda recitazione e gestualità.
Chi invece mostra tutto il suo stile e solidità tecnica è Erwin Schrott. Egli è uno Scarpia più giovane, aitante e dal colore vocale più chiaro rispetto a quanto ci hanno abituato alcune interpretazioni del passato. Ad ogni modo, la sua è un’interpretazione estremamente efficace sia sul piano vocale che scenico. Al netto di alcuni passaggi un po' forzati nel secondo atto, che lo costringono a qualche fiato di troppo, egli sfoggia un’emissione fluida, un colore vocale bello e uniforme, una dizione chiara. Le sue qualità sceniche e il lavoro sul personaggio emergono soprattutto in quelle frasi a cui spesso non si presta attenzione (si veda ad esempio ‘è arnese di pittore questo?’, brandendo il ventaglio della Attavanti), ma che se cantate con la giusta intenzione rendono il personaggio del malvagio e rapace barone anche meglio delle arie. Bene Jeremy White nel ruolo del sagrestano, cantato con la dovuta verve e leggerezza. L’interpretazione di Josef Jeongmeen Ahn (Angelotti) è purtroppo inficiata da un fraseggio approssimativo, con un forte accento straniero. Buoni Hubert Francis, nel ruolo di Spoletta, e Thomas D. Hopkinson, nella parte di Sciarrone. Madeleine McGhee, nel ruolo del pastorello, propone una solida esecuzione dello Stornello, anche se, causa la sua collocazione fuori scena, non è sempre ben udibile. Bene anche John Morrissey nel ruolo del Carceriere.
Alla fine ovazioni per tutti e, personalmente, mi si consenta, il piacere di aver ritrovato l’emozione di prima che imperversasse il regie theatre e si andava all’opera per apprezzare le voci e la magia del bello.
La recensione si riferisce alla replica del 12-12-2022
di Kevin De Sabbata (13-12-2022)
Photo credit: Clive Barda
Foto di repertorio della stessa produzione (Malin Bystrom, Tosca - Gabriele Viviani, Scarpia)