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Musica e Parole

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Tosca, una preziosa analisi di Guido Paduano (ritrovata in archivio)

2022-08-13 03:11

Admin

Musicologia generale, Storia della Lirica, Curiosità, musicologia, opera, puccini,

Tosca, una preziosa analisi di Guido Paduano (ritrovata in archivio)

Delle riflessioni su Tosca di Guido Paduano raccolte in un articolo non più disponibile su internet ma che ho recuperato fortunosamente nel mio archivio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell'ormai lontano 1998 già raccoglievo articoli e documenti nel mio PC relativi a tematiche musicali, notizie e foto su opere liriche, spettacoli e quant'altro. Certo non avrei mai immaginato dopo tanti anni di ritrovare nel mio vecchio hard disk questo materiale così prezioso. Windows 98 appunto era il sistema operativo, PC obsoleto... pensavo di aver perso tutto. Invece collegando l'HD a un dispositivo molto semplice ma ingegnoso sono riuscito a salvarne il contenuto. Le immagini sono un po tutte di bassa qualità, ma ho scoperto nelle cartelle alcuni contenuti interessanti che pubblicherò ogni tanto per renderli nuovamente disponibili sul Web.

L'interessantissimo testo che vi propongo è di Guido Paduano, insigne accademico e filologo italiano, che si è occupato anche di critica del teatro classico e della sua storia. 

"La violenza innocente e la violenza onnipotente" è un bellissimo viaggio di analisi nel libretto di Tosca, un testo avvincente che non può rimanere perduto nelle pieghe del tempo. Purtroppo il mondo digitale mi sto sempre più accorgendo che tende a dimenticare molto in fretta, anche per questo decisi di fondare questo sito per salvare i contenuti interessanti del gruppo ma anche tutto quello che di bello è stato dedicato nel tempo al nobile mondo della musica e che è stato nel tempo dimenticato o messo da parte.

Buona lettura,

Alessandro Ceccarini, adm

 

 

La violenza innocente e la violenza onnipotente

di Guido Paduano


1.La catastrofe di Tosca si consuma istantaneamente attraverso la disambiguazione di un’immagine capace di suggerire allo stesso titolo le opposte polarità dell’esito - da un lato la distruzione della vita e quindi dell’amore, dall’altro la fuga, la libertà, la felicità - a seconda che i suoi sinistri significanti vengano interpretati alla lettera, ovvero alla luce di una semplice o di una doppia negazione. La lettera fa credere all’esecuzione di Cavaradossi, regolarmente decretata da Scarpia, attesa e fronteggiata dal tenore nello straziante addio alla vita; il patto intercorso tra Tosca e Scarpia e unilateralmente, sembra, violato da Tosca, fa credere a una simulazione o messa in scena innocua della morte; la volontà segreta di Scarpia, prevalente anche dopo la sua morte, produce un secondo ribaltamento che restituisce alla morte la sua carnale presenza, mentre simulata è proprio la simulazione, e dalla messa in scena non l’astrattezza della legge, ma la speranza di salvezza viene ingannata.Questo corto circuito fra opposti conferisce struttura peculiare all’azione drammatica: se la costante dell’esperienza tragica (in cui Tosca si inscrive) è la vittoria che in essa l’avverso principio di realtà consuma sulle istanze umane che sono fatte oggetto di identificazione emotiva, qui una tale vittoria non è il prodotto ultimo di un conflitto sviluppato progressivamente sull’ossatura del tempo lineare, ma discende da una scelta tra equivalenze simboliche giocate sulla sincronia e nella simultanea polarizzazione. Così la più alta affermazione dell’io è strettamente contigua e si inscrive sotto le stesse coordinate della coercizione e distruzione definitiva, assumendone le caratteristiche di radicalità che rispondono alla fatalità puntiforme e totalizzante dell’esecuzione capitale. È come se salvarsi dal rischio assoluto realizzasse una salvezza altrettanto assoluta; come se falsificare, secondo il patto, i fucili di Scarpia fosse falsificare la morte una volta per tutte. S’intende che l’immortalità garantita da questo paralogismo avrebbe comunque valore nel tempo che le è pertinente, quello drammatico, ma esplicitamente ambisce a diventare proiezione esistenziale, accogliendo dentro di sé la naturalità dolce di una fine sottratta alla ferocia dei conflitti:

 

Finché congiunti alle celesti sfere
dileguerem, siccome alte sul mare
a sol cadente, nuvole leggere!

 

Nel momento decisivo, sul mondo di Tosca esercitano contemporanee rivendicazioni il potere dell’amore che, dice Floria a Mario con una certezza segnalata dal tempo verbale, «seppe vita a te serbare», e il potere nullificante di Scarpia.
Che il principio di realtà coincida senza riserve col volere individuo di una persona, è un tratto singolare, ragione non ultima del fascino dell’opera e, all’interno di essa, di quello esercitato dal protagonista negativo nonostante, appunto, le controindicazioni fornite dal giudizio morale e dalla simpatia per i suoi avversari: un potere assoluto fa appello segreto al Machtwille di cui ogni uomo porta in sé il peso.
È anche degno di nota che l’onnipotenza di Scarpia sia tratto innovativo della situazione operistica rispetto a Sardou, e come tale designi una lucida volontà significativa: in Sardou, la posizione di Scarpia è subalterna, l’obbligo di catturare rapidamente Angelotti gli viene dalla regina e su di lui pende anche la spada di Damocle dell’antipatia popolare, sanfedista o capricciosamente ribelle. Tutto questo orizzonte è sgombrato nell’opera di Puccini per lasciar posto a un incontestato diritto di vita e di morte, a proposito del quale non fa aggio neppure il potere della regina; è nominato sì: da lei Tosca può ottenere la grazia per Mario, ma Scarpia ha il potere di far sì che arrivi troppo tardi.
Anche la fine precoce di Scarpia contribuisce paradossalmente ad assolutizzare e canonizzare il suo potere. La morte rende la sua trama immutabile e invulnerabile (la Tosca di Sardou si lamenta con un ruggito di non potere ucciderlo un’altra volta), e il dominio esercitato nel terzo atto dalla sua assenza assume caratteri di formalizzazione universale.
L’aut aut ultimo fa sì che la vittoria del male si carichi del valore aggiunto che le trasmette la forza rivale, stroncata al colmo della sua vitalità; se dal punto di vista semiotico e rappresentativo la specularità delle forze in gioco è un formidabile elemento di tensione ed equilibrio, dal punto di vista assiologico è specularmente raddoppiata la devastazione di chi sopravvive all’illusione vittoriosa, l’impotenza e la passività di chi si credeva agente e dominante. Corrispondentemente si approfondisce l’amarezza del messaggio che dalla particolarità della situazione rimanda alla generale precarietà della condizione umana.
Ma sta nella particolarità di questa situazione che il tributo reso dalle forze vitali al distruttivo principio di realtà non si limiti al generico abbellimento dei suoi trofei, ma sia concretizzato, inverato, dettagliato da una strategia funzionale che, pervertite e stravolte, le arruola nel campo avverso. Questa strategia è dunque propriamente immorale, se per canone di moralità prendiamo l’obbligo kantiano di considerare l’essere umano come fine e non come mezzo: qui l’essere umano è considerato mezzo per fini puntualmente opposti ai suoi propri. Così gli atti che più apertamente ambiscono a libertà e creatività (e di conseguenza a efficacia sul piano stesso della realtà) sono più oscuramente coartati - mosse previste dalla scacchiera segreta.

 

2. La prima e più clamorosa di queste procedure di rovesciamento concerne la gelosia di Tosca, che Scarpia ingaggia come un «buon falco» per farsene condurre sulle tracce di Angelotti: non otterrà la cattura diretta del ribelle, ma il coinvolgimento di Tosca in informazioni compromettenti gli consentirà di avere queste informazioni quando per Tosca la delazione sarà l’unico modo di far cessare la tortura di Cavaradossi.
Per la gelosia di Tosca, Scarpia richiama quella di Otello, vedendo se stesso nel ruolo di Jago. La notazione metateatrale, che si spinge fino alla citazione della frase con cui Jago constata i suoi progressivi successi («Morde il veleno»), e che, sebbene trovi riscontro in Sardou, viene sicuramente arricchita dal più vicino richiamo all’Otello verdiano, è rideterminata dal carattere metateatrale comunque spettante ai personaggi demiurgici, che sull’azione esercitano una creatività paragonabile a quella dell’autore. Ma tra le due situazioni intercorre una differenza importante, che fa diversamente evolvere il comune ruolo di potere e la comune dinamica dell’assoggettamento. La gelosia di Otello non ha statuto ontologico, non esiste prima né indipendentemente dalla maieutica di Jago: la smentiscono anzi apertamente gli atteggiamenti di larga e generosa fiducia, non meno della patetica credenza di Desdemona che il sole dell’Africa abbia in lui asciugato gli umori maligni. La gelosia di Otello è un mostro che si nutre della parola illusionistica e dell’ecolalia che Jago suscita dal suo padrone nell’atto di farne il suo servo.
Ben diversamente Tosca, di cui prima ancora di conoscere Scarpia conosciamo per bocca di Mario e poi per manifestazione diretta una gelosia che andrà invece letta come fonte positiva di energia, equivalente a una dimensione estroversa e possessiva dell’eros.
Sarà da tenere non poco conto della didascalia che, marcando l’entrata di Tosca, ha l’ufficio di presentarcela: «entra con una specie di violenza, allontana bruscamente Cavaradossi che vuole abbracciarla, e guarda sospettosa intorno a sé».
La parola che ho messa in corsivo è qualcosa più che significativa di per sé: inaugura piuttosto il sistema delle equivocità, meglio applicandosi alla controparte poliziesca («Tal violenza!», suona la protesta di Mario arrestato): tanto più che il parallelismo si rafforza subito allorché da Tosca Mario subisce un regolare interrogatorio con tanto di termini tecnici («Neghi?»).
Anche qui, la genesi del libretto svela per via contrastiva opzioni lucide: la didascalia corrispondente di Sardou era neutra, il sospetto alleggerito, la codificazione dell’interrogatorio del tutto assente.
Chiamo innocente questa violenza perché Tosca ne paga un consapevole prezzo, condividendo l’angoscia che infligge, e in tal modo ricostruendo una paradossale solidarietà: quando proclama «certa sono del perdono, / se tu guardi al mio dolor», il «dolore» è semplicemente equivalente al versante disforico e fragile dell’amore. Ma ben oltre il perdono va Mario, che nell’aggressività di lei vede una componente dialettica e immancabile del fascino:

 

Occhio all’amor soave, all’ira fiero,
qual altro al mondo può star di paro
all’occhio tuo nero?

 

E ancora più esplicitamente:

Tosca idolatrata,
ogni cosa in te mi piace:
l’ira audace
e lo spasimo d’amor.

 

Dialettica è la compresenza di pulsioni emotive contraddittorie, ma anche la relazione interpersonale, che disegna una dominazione accettata, goduta da chi la subisce più ancora che da chi la impone: una convincente trascrizione psicologica del dominio semiotico che da sempre la storia del genere assegna al soprano (e in effetti, ancora una volta registriamo l’innovazione sul più dimesso testo di Sardou). In ogni caso, un patrimonio di preziosa esclusività, che viene invece penosamente alienato quando Scarpia, usando il ventaglio dell’Attavanti al posto del fazzoletto di Jago, risveglia in Tosca un dubbio rivestito dalle peggiori apparenze di fondatezza.

 

3. Peraltro l’irruzione di Scarpia nell’armonia di coppia non si limita alle finalità empiriche dichiarate e, nella misura che ho ricordato prima, raggiunte: un raffronto preciso con la scena della tortura nel secondo atto obbliga a leggervi anche la soddisfazione di un impulso a sua volta geloso e invidioso. Riprendendo conoscenza,Mario chiede ansiosamente a Tosca: «Hai parlato?» «No», mentre Tosca con infantile tendenza a rinviare la scoperta inevitabile – ma subito la verità lacerante («Nel pozzo / del giardino.Va’, Spoletta») la urla Scarpia: non per finalità empiriche, ma solo perché Mario lo senta.
È Scarpia stesso, nella confessione monologica del primo atto, sullo sfondo del Te Deum, a evidenziare il nesso tra ruolo pubblico e pulsioni private:

 

A doppia mira
tendo il voler, né il capo del ribelle
è la più preziosa.

 

Difficile sottrarsi al suggerimento che anche il regime degli uffici e dei doveri abbia un contenuto libidico, anche se il piacere di torturare, nascosto dietro la maestà della legge, appare goduto da Scarpia non per sé, ma al servizio della sua infatuazione per Tosca, sulla quale la descrizione dei tormenti inflitti a Mario esercita una feroce pressione (che, ancora una volta, ha «doppia mira»: inquisitoria e sessuale):

Legato mani e piè,
il vostro amante ha un cerchio uncinato alle tempia,
che ad ogni niego ne sprizza sangue senza mercè.

Certo è invece, al contrario, che per Scarpia anche il regime degli investimenti psichici è regolato da una strategia funzionale che richiede la spietata e intera oggettualizzazione dell’alterità. Se è forte fino al punto di «fargli dimenticare Iddio» – con una tensione che non suggerisce ipocrisie – la passione non crea però in Scarpia nessuna dipendenza, perché il desiderio di possesso percorre in lui la via obbligata del ricatto. Antico espediente della lotta fra i sessi e delle sue rappresentazioni culturali; però il ricatto di Scarpia colpisce per il suo carattere preordinato e premeditato, che anticipa la situazione di necessità in cui verrà a trovarsi Cavaradossi, e dunque prescinde dai suoi comportamenti, relegandolo in una sprezzante irrilevanza:

 

Ella verrà... per amor del suo Mario!
Per amor del suo Mario al piacer mio
si arrenderà. Tal dei profondi amori
è la profonda miseria.

 

La distanza stabilita con puntiglio soggettivo tra piacere e amore e l’anafora di «profondo» sono ugualmente eloquenti a esprimere il rifiuto dell’amore come fonte di vulnerabilità, quella che Tosca, pur essendo il polo dominante della coppia, soffriva affidando sé e il suo destino alla fedeltà di Mario. Un’attrazione sessuale che non vi si assoggetti potrà al contrario godere della vulnerabilità che l’amore induce in chi ne è affetto, inducendolo a pagare qualunque prezzo per la salvezza dell’essere amato.
Ma la perversione percorre un itinerario meno semplice, compromettendo di Tosca non solo l’amore per Mario, ma anche un aspetto dell’identità personale che abbiamo visto emergere nel rapporto con Mario e simmetricamente riaffiora nel rapporto con Scarpia. Anche Scarpia infatti si trova a contatto con l’«ira» diTosca: un termine generico che nei confronti di Mario assumeva il senso specifico di gelosia, mentre nei confronti di Scarpia assume quello di ribrezzo e rifiuto. Entrambe certo manifestazioni di energia psichica, se si vuole anche di quel temperamento che è per tradizione connesso al mestiere teatrale, ma ben distinte dal fatto che, mentre la seconda esclude la comunicazione, la prima consente (o addirittura determina?) la risoluzione degli elementi conflittuali in cooperazione. Potrà dunque sorprendere che vengano accolte da Mario e da Scarpia allo stesso titolo, quali ingredienti del piacere: un rantolo crudo di Scarpia, respinto da Tosca, accompagna le parole «Spasimi d’ira e spasimi d’amore», dove a nessuno può sfuggire la sovrapponibilità con «l’ira audace e lo spasimo d’amor».
Ma mentre Mario e Tosca vivono una concezione del sesso come relazione umana, ancorché inquieta – il bellissimo attributo che, fuori di ogni situazione, ontologicamente, viene attribuito alla donna («Mia vita, amante inquieta») – Scarpia vive una concezione del sesso come godimento unilaterale, dove l’aggressività femminile viene incanalata per creare alla libido un’humus composta dei suoi medesimi impedimenti.
Il valore significativo di questa opposizione è incrementato dal suo carattere tematico: infatti, anche più clamorosa è un’altra interferenza tra tenore e baritono, che ha per oggetto la pluralità delle fonti di attrazione sessuale.


Da un lato, Recondita armonia:

Recondita armonia
di bellezze diverse!... È bruna Floria,
l’ardente amante mia,
e te, beltade ignota,
cinta di chiome bionde,
tu azzurro hai l’occhio, Tosca ha l’occhio nero!
L’arte nel suo mistero
le diverse bellezze insieme confonde:
ma nel ritrar costei
il mio solo pensier, Tosca, tu sei!

 

Dall’altro:

Bramo. La cosa bramata
perseguo, me ne sazio e via la getto,
volto a nuova esca. Dio creò diverse
beltà, vini diversi. Io vo’ gustar
quanto più posso dell’opra divina!

 

Per Mario, vastità e multiformità della bellezza sono le condizioni che avvalorano la selezione, e ad essa comunque si riportano attraverso le procedure di totalizzazione che definiscono l’impegno emotivo della psiche; per Scarpia una parcellizzazione brutale riduce la relazione all’atto ripetuto del consumo, realizzando l’equivalenza tra donne e vini che deriva dall’esaltazione empia di Don Giovanni («Vivan le femmine, viva il buon vino / sostegno e gloria d’umanità»).
Rispetto a questo consumo, la resistenza della vittima sarà considerata alla stregua di una spezia:

 

Ha più forte
sapore la conquista violenta
che il mellifluo consenso.

 

Un programma perfettamente realizzato nella scena del ricatto, a partire dall’avance:

 

[ ] il tuo sguardo
ch’odio in me dardeggiava,
mie brame inferociva.

 

In risposta all’esplosiva ripulsa di Tosca («Non toccarmi, demonio; t’odio, t’odio, / abbietto, vile!») sentiamo da Scarpia un «Come tu m’odii!» rabbiosamente estasiato, e poi un ruggito, «Così, così ti voglio».
Varrà la pena di leggere a riscontro, nonostante qualche eccesso di verbosità, la teorizzazione del personaggio di Sardou:

Demonio, sia pure! Come tale, ciò che mi affascina, creatura superba, è che tu sia mia... con rabbia e dolore? Che io senta dibattersi la tua anima indignata, il tuo corpo rivoltarsi e fremere per l’abbandono obbligato alle mie odiose carezze e per tutta la tua carne, schiava della mia. Quale rivalsa sul tuo disprezzo, quale vendetta dei tuoi insulti, quale raffinata voluttà, che il mio piacere sia insieme il tuo supplizio. Sì, tu mi odii. Ma io ti desidero, e mi riprometto una gioia diabolica dall’accoppiamento fra il mio desiderio e il tuo odio.

Successivamente:

Continua! Insultami! Non sarà mai troppo! Sputami in faccia il tuo disprezzo, mordi, sbrana... Tutto questo sferza i miei desideri e non fa che renderli più avidi di te.

 

4. Prodotto immaginario – anzi due volte immaginario – della volontà di Scarpia, la falsa esecuzione diventa nel terzo atto appassionata pertinenza della sola Tosca. Diversamente non potrebbe essere, quando è intervenuta la morte di Scarpia a mutare i termini del contratto, lasciando in apparenza alla finzione il suo solo carattere benigno e salvifico, cui Tosca è tutta tesa: in tal senso il libretto ha rimediato a una gaffe di Sardou che inquinava la scena omologa con la presenza di Spoletta e le sue irrilevanti istruzioni.
Ma nella finzione da cui Tosca si aspetta salvezza, c’è anche qualcosa che supera il pur prezioso livello strumentale per richiamarsi all’identità della protagonista: ed è l’omogeneità simbolica con la finzione teatrale che costituisce per lei vita e mestiere e diciamo dunque, paradossalmente, autenticità.
Uno spunto minuscolo di Sardou, dove Tosca diceva «Recita bene il tuo ruolo; cadi sul colpo e fallo bene, il morto», è diventato nell’opera di Puccini un’intera scena organizzata e coerente, e soprattutto determinante, se è vero che in essa risiede la condizione necessaria e sufficiente per la fantasia di immortalità che abbiamo visto prima.

 

Bada!
Al colpo egli è mestiere
Che tu subito cada
Ma stammi attento - di non farti male!
Con scenica scïenza
io saprei la movenza...

 

Mario interrompe Tosca con l’onda appassionata dell’evasione, ma il ritorno alla contestualità del reale, marcato dall’avviso del carceriere, comporta il ritorno alla maieutica:

 

TOSCA
(E cadi bene.)

CAVARADOSSI
(sorridendo)
(Come la Tosca in teatro.)

TOSCA
(vedendolo sorridere)
(Non ridere...)

CAVARADOSSI
(serio)
(Così?)

TOSCA

(Così.)

 

Il richiamo alla serietà è solo la punta emergente dell’atteggiamento che la didascalia definisce «premurosa tenerezza» e che riproduce, ulteriormente giustificata dalla prevalenza professionale, l’imperiosità dell’eros a noi già ben nota. Ma proprio nella professionalità – se si vuole essere più precisi, nel ruolo di regista che Tosca assume con quella stessa congenialità e naturalezza con cui così spesso lo hanno assunto i grandi attori – risiede il potere istituzionale di dettare il comportamento altrui.
Regìa è quella di Tosca soprattutto quando a distanza guida, più che non seguire, il comportamento di Cavaradossi: l’osservazione «Come è bello il mio Mario» davanti ai fucili puntati fonde lo slancio amoroso con l’immedesimazione spettacolare; poi al cenno «Là! muori!», segue il trionfo del compiacimento creativo, assecondato dall’esplosione in orchestra: «Ecco un artista!».


5. Per Tosca, essere responsabile della finzione implica essere simultaneamente responsabile del suo fallimento, tanto più infelice quanto più ambizioso era il progetto salvifico: quest’altro corto circuito prende a prestito dalla tradizione del teatro classico lo strumento principe dell’ambiguità, l’ironia tragica, che attraverso lo stesso significante convoglia insieme due significati, uno noto al personaggio ed euforico, uno ignoto e puntualmente rovesciato: proprio nell’ignoranza di sé e del proprio destino che viene in tal modo evidenziata si marca il più profondo livello di impotenza, pendant nell’affermazione di potere che si riscontra nel progetto euforico.
Bene rientra in questo schema il «Là! muori!» appena visto che, sfida esorcistica all’apparenza, si ritorce nella letteralità atroce; ma sistematicamente la trama dell’ironia tragica si dipana già a partire dal secondo atto.
«Chi m’assicura?», chiede Tosca, giustamente diffidente delle promesse di Scarpia; ma si acquieta alla risposta: «L’ordin che gli darò [a Spoletta] voi qui presente».
In realtà l’ordine destinato a tranquillizzare Tosca è proprio l’ordine di morte; una perfetta e chiusa struttura anfibologica serve la doppia necessità cheTosca e Spoletta ricevano due messaggi esattamente opposti, e che Tosca creda che Spoletta abbia ricevuto il suo stesso messaggio.

 

SCARPIA
(fissa con attenzione Spoletta che accenna replicatamente col capo di indovinare il pensiero di Scarpia)
Ho mutato d’avviso...
Il prigionier sia fucilato. Attendi.
Come facemmo del conte Palmieri.

SPOLETTA
Un’uccisione...

SCARPIA
(subito con marcata intenzione)
... simulata!... Come
avvenne del Palmieri!.. Hai ben compreso?

SPOLETTA
Ho ben compreso.

SCARPIA
Va’.

TOSCA
Voglio avvertirlo
io stessa.

SCARPIA
E sia.
(a Spoletta, indicando Tosca)
Le darai passo.
(marcando intenzionalmente)
Bada:
all’ora quarta.

SPOLETTA
(con intenzione)
Sì. Come Palmieri.

 

Le didascalie, cioè i tratti soprasegmentali e di comportamento gestuale che esse organizzano, si prendono in questa scena il ruolo protagonistico, generando un senso di allarme, un richiamo all’attenzione che purtroppo Tosca può equivocare perché apparentemente giustificato dall’anomalia della simulazione, senza bisogno di leggervi l’anomalia di secondo grado su cui Scarpia invece ha bisogno di insistere, a scanso di equivoci da parte di Spoletta. Sortisce effetto di cumulo sulle didascalie, ed è peraltro neutralizzabile allo stesso modo, anche l’insistenza sulla ricezione («Hai ben compreso?»); infine, e soprattutto il senso distruttivo è garantito dalla chiave di sicurezza che Scarpia introduce nel discorso e viene anch’essa ribadita con la solita «intenzione». Ciò equivale da parte di Scarpia a barare già nella parte procedurale del contratto: se infatti esso contempla che a Spoletta non venga detto niente che Tosca non senta, Tosca solo fisicamente sente, senza capire, il richiamo al conte Palmieri, che fa parte di un codice esclusivo ai due poliziotti, e si trova nelle condizioni di chi firma un contratto contenente una clausola scritta in lingua sconosciuta.
Nel terzo atto, l’ambiguità del carnefice assente genera quella delle vittime. Quando Floria comunica a Mario «prima sarai / fucilato – per finta – ad armi scariche», il suo enunciato non resta indietro ai più celebri detti oracolari per la perfezione dell’ambiguità, dove la discriminazione del senso è affidata solo alla sequenza di lettura, al collegamento che può diversamente stabilirsi tra segmenti linguistici. «Per finta» e «ad armi scariche» sono per Tosca due espressioni equivalenti che vengono cumulate, in parallelo, per il bisogno psichico di contrastare ad abundantiam il sinistro impatto del termine «fucilato». Ma al di fuori delle intenzioni di Tosca la frase permette di leggerle in serie, suggerendo che una intervenga negativamente sull’altra, e significare che solo per finta le armi saranno scariche.
A differenza che nel caso precedente, l’ironia tragica non scaturisce dalla cooperazione conversazionale, ma devasta l’unità della persona: il più indiscusso possesso della volontà, la parola, si rivela infido ed enigmatico, esposto alla possibilità che l’enunciato si rivolti contro l’enunciatore, inchiodandolo a una condizione di schiavitù più profonda e radicale di chi è costretto al silenzio. Anche su Mario, estendendosi l’illusione, si estende la perversione.

Quando rassicura Tosca con le parole «Non temere / che cadrò sul momento – e al naturale», la realtà che le intenzioni allontanano minaccia contestualmente il suo decisivo ritorno: mentre con l’espressione «al naturale» si vuol dire «imitando l’atteggiamento di chi viene colpito», si rischia di dire, e in rapporto all’esito imminente si dice in effetti, «cadrò perché effettivamente colpito». Del resto, che la realtà inglobi dentro di sé quella verosimiglianza imitativa che si chiede alla finzione, ce lo dirà Tosca stessa celebrando come capolavoro della recita («Ecco un artista») il gesto della definitiva naturalità.

6. Sta nella definizione dell’ironia tragica che entrambi i versanti significativi compresenti abbiano dignità intera, in quanto microcosmi rappresentativi di Weltanschauungen globali. Per questo, non per ingenuità, Tosca è sempre certa di un patto che ha genesi e struttura evidentemente sospetti, almeno per lo spettatore reso onnisciente dalla classicità del testo (chissà se anche per lo spettatore della prima di Tosca).
Ciò non le impedisce, tuttavia, di vivere la fantasia di liberazione soffocando in profondo un senso di morte che si insinua non dalla paura di una superiore manipolazione, bensì al contrario dalla ritualità astratta, immediata, superstiziosa dello scenario che si ritiene di avere vanificato.
La sua aura sinistra balena già al momento in cui Tosca comunica a Mario i modi della finzione, facendoli precedere da un invito a riderne («Ma prima... ridi, amor... prima sarai / fucilato») che parla a sufficienza di angoscia e disagi. Nello stesso senso parla il bisogno che tutto si concluda in fretta. «E non giungono», è detto da una Tosca che la didascalia definisce un’altra volta «inquieta»; poi quando il cerimoniale si è avviato, le sue scansioni tradizionali, ci dice ancora la didascalia, «stancano la pazienza di Tosca».

 

Già sorge il sole...
Perché indugiano ancora? È una commedia,
lo so... ma questa angoscia eterna pare.


Poi, «vedendo l’Ufficiale che sta per abbassare la sciabola, si porta le mani agli orecchi per non udire la detonazione».
La consapevolezza del vivere una «commedia», pure nutrita di infallibile competenza e determinazione, si qualifica proprio nello sforzo di superare il livello oscuro della sottomissione universale al dominio della morte, e non lo supera che per cadere stroncata dall’altro senso di morte, quello che ha partorito la diabolica macchinazione contro la macchinazione.
La distinzione dei piani resta limpida: si pensi che Spoletta impedisce al sergente di dare il colpo di grazia, così che la rivelazione si procrastina ancora e permette a Tosca un macabro dialogo unilaterale con il morto. Dunque non sarebbe esatto dire che Cavaradossi muore come se il patto con Tosca non ci fosse mai stato, proprio come è approssimativa, in linguistica come in logica, l’asserzione che due negative costituiscono un’affermativa.
È vero invece che la causa della morte dispone nell’opera di un portavoce universale, in grado di prescindere da ogni articolazione narrativa e da ogni accertamento di responsabilità: è il linguaggio orchestrale, che da sempre, con la sua larga e cupa drammatizzazione, si è preso il compito di ricordare l’immancabilità dello scioglimento luttuoso che sta nelle leggi del genere, e conseguentemente di esprimere sfiducia nel patto con ben altra forza che non sia nell’ambiguità segreta del testo linguistico.

 

7. Diremo dunque che non c’è nessuna recita, dal momento che i personaggi della falsa esecuzione finiscono soffocati nel sangue «vero»? Sarà meglio concludere piuttosto che si svolge un’altra recita, con un’altra regìa. Non la recita in cui la parte di Tosca e Mario consiste nel subire l’esecuzione, ma quella in cui la loro parte consiste nel credere alla vanificazione della morte. Rispetto a questo rovesciamento, si scambiano altresì vero e falso in quella dialettica di angoscia e sollievo che ho appena considerato.
Questa parte loro affidata dal morto e onnipotente Scarpia, Tosca e Mario la recitano contro la loro volontà e nell’inconsapevolezza, e ciò che recitano è quanto è in loro di più autentico: la speranza di vita che, irriducibile in Tosca come tratto sistematico della sua prepotente personalità, a Mario si trasmette in forza della sua altrettanto sistematica capacità di dominio.
Ma recitare l’autentico e recitare senza saperlo sono due contraddizioni in termini rispetto alle norme istituzionali della civiltà teatrale che definiscono la recita come consapevole, controllato e temporaneo distacco dalla personalità individuale dell’autore.
Ecco dunque che anche il talento teatrale di Tosca è stato da Scarpia snaturato in direzione opposta alla sua propria; ancora una volta qualcosa in lei che è forza e difesa è stato diabolicamente convertito in debolezza e complicità. Si può dire di più, che i contenuti di quest’ultima perversione si rivelano più vicini di quanto si potrebbe pensare alle altre di cui ho già parlato: ridurre a spettacolo l’esistenza altrui – e tanto più di chi, per sovrano dominio della propria arte, sovranamente distingue esistenza e spettacolo – altro non è che la variante più complessa, tra quante ci vengono qui presentate, della reificazione e sopraffazione sadica.
Viene da pensare al più ambizioso, forse, tra i drammi ideologici di Alberto Moravia, Il dio Kurt, dove in un campo di sterminio nazista viene messo in scena l’Edipo re con materiale umano vero (dalla effettiva parentela fra gli attori alla tangibilità, anche in quel caso, del sangue sparso).
Anche in questo caso è importante inseguire tra le pieghe del testo la coerenza sistematica del tema, rintracciandone la parentela con quello che sarebbe erroneo sottovalutare per la sua apparenza di luogo comune: la priorità della natura sulla cultura, della donna sull’artista di cui Scarpia si fa paladino, in Puccini come già in Sardou.
Quando Tosca rivive nella sua mente e nella sua carne le sofferenze inflitte poco distante a Cavaradossi, in particolare quando constata con orrore l’incompatibilità tra il linguaggio di Scarpia e la solidarietà intesa come forma basilare di umanità («Tu ridi... tu ridi / all’orrida pena»), Scarpia commenta in risposta, e la didascalia aggiunge, con entusiasmo:

 

Mai Tosca alla scena
più tragica fu.

 

Poi, al momento di introdurre la proposta:

 

Già mi struggea
l’amor della diva!...
Ma poc’anzi ti mirai
qual non ti vidi mai!

 

Qui forse la brachilogia melodrammatica è andata a scapito della chiarezza, fino al punto di lasciare senza controparte esplicita l’antitesi diva/donna: diventa dunque utile anche dal punto di vista informativo la citazione del modello di Sardou:

Ora non avete più davanti a voi che il barone Scarpia, vostro abituale estimatore, che ha per voi un’ammirazione che arriva al fanatismo, e che pure questa notte ha assunto un carattere nuovo. Sì, finora non avevo saputo vedere in voi che l’interprete squisita di Cimarosa o di Paisiello. Questa lotta mi ha rivelato la donna. La donna, più tragica, più appassionata dell’artista, e cento volte più ammirevole nella realtà dell’amore e delle sue sofferenze che non nella loro finzione. Ah, Tosca! Avete trovato degli accenti, delle grida, dei gesti, degli atteggiamenti... una cosa prodigiosa. Ne ero abbagliato al punto da dimenticare il mio ruolo in questa tragedia, per acclamarvi da semplice spettatore e dichiararmi vinto.

Questo discorso ha ben più di malafede di quanto non risulti dalla melliflua retrattilità del finale (un’ipocrisia conservata nell’opera: «Cedo», dice Scarpia quando non fa che riproporre, appesantiti dall’urgenza del tempo, i termini immutati del ricatto). Il termine «spettatore» mistifica due volte, sia rispetto al soggetto che rispetto all’oggetto, la relazione che pretende di definire.
Quanto all’oggetto, perché di accenti, grida, gesti – dell’immediatezza vitale non formalizzata che il patto teatrale (estraneo a Scarpia quanto la più generica categoria del rispetto della persona) esclude dalla comunicazione – non si è spettatori, ma semmai voyeurs. E dico semmai, perché, quanto al soggetto, non è questa, che connota distanza e passività, la parola adatta a definire chi accenti, grida, gesti, li ha invece causati, reazioni a stimoli omologhi, scientificamente inflitti. L’autonomia, non meno che l’artificiosità, del teatro è esclusa da questo «fanatico» frequentatore di spettacoli.
Il piacere che Scarpia si prende nel secondo atto, diametralmente opposto a quello dello spettatore, consiste nello smantellare l’edificio formale e intellettuale che costituisce l’immagine dell’attrice, per isolare al fondo di essa nuclei emotivi regrediti a tranche de vie per effetto di sollecitazioni così violente da trapassare, negli strati verticali della coscienza, qualunque tecnica e qualunque mediazione.
Dello stesso piacere distruttivo è questione nel terzo atto, ma con due potenti additivi: da un lato esso è riferito non più alla persona accidentale di Scarpia, ma alla funzione eterna che ha preso il suo posto e porta a termine il suo piano; dall’altro, ripetendo quello che ci è apparso essere lo schema tematico e definitorio di quest’opera, il suo spessore è raddoppiato dallo spazio di illusoria positività attribuito alla dimensione teatrale. La signora delle scene, che si sente chiamata a esercitare mestiere e «scienza» nel loro compito più alto e delicato, che prende alla lettera il loro essere ragione di vita, proprio in ciò regredisce a marionetta vivente di un teatro del mondo opposto al teatro degli uomini.

di GUIDO PADUANO

 

(tratto dal sito LaScalaWeb, luglio 1997 - sito e risorsa non più disponibili ormai da molti anni sul web - il testo viene proposto a scopo divulgativo vista la sua rilevanza e la difficile reperibilità.

Qualora ci fossero delle obiezioni sulla pubblicazione del testo si prega di comunicarlo nei commenti così quanto prima provvederemo a eliminare il contenuto)

 
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Calendarietto di Tosca del 1948 

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