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Madama Butterfly, tragedia giapponese in tre atti di Giacomo Puccini su libretto di Illica-Giacosa, rivive nell’Arena di Verona con la regia di Franco Zeffirelli e gli splendidi abiti di Emi Wada, Premio Oscar nel 1986 per i migliori costumi nel film “Ran” di Akira Kurosawa.
Una produzione, realizzata per la prima volta per l’Arena nel 2004 che continua ad ammaliare, sedurre e commuovere.
La cifra stilistica di Zeffirelli è quella di plasmare la tradizione, unirla ad un’estetica appagante e curare l’azione come se si trattasse di una pellicola cinematografica.
E se si pensa che Puccini è il più filmico dei compositori si capisce che l’accoppiata è vincente.
Aggiungiamo poi interpreti che non si limitano ad essere dei buoni esecutori ma che si fanno possedere dai loro i personaggi tanto da non essere più in grado di distinguere il vero dal falso e possiamo comprendere il segreto del successo di questa serata.
I grandi spazi del palco in Arena sono sfruttati per ricostruire il Porto di Nagasaki e tutte quelle piccole scene di vita quotidiana che nella loro immediatezza ci consentono di collocare storicamente e geograficamente l’azione.
Sul palco viene ricostruito tutto l’immaginario esotico di un Giappone che si apre ai mercati occidentali dopo un lungo isolamento.
Un risveglio cittadino, in un luogo in fermento, che pullula di vita.
Uomini che puliscono le strade, donne che portano l’acqua, marinai che si azzuffano per un nonnulla o si accompagnano a delle smaliziate ragazze Giapponesi.
Che siano prostitute lo si evince facilmente dai modi, dalla camminata ancheggiante e dal fiocco della cintura del Kimono che portano sul davanti per ovvie questioni di praticità, a differenza della Geisha che annoda l’Obi dietro la schiena.
E’ una distinzione importante questa perché la sua grazia, la sua purezza ed eleganza sono il risultato di un lungo apprendistato che fa di lei una forma d’arte e per questo ancora più preziosa.
Il cast della serata e di grandissimo livello con uno stuolo di co-protagonisti che tiene altissima l’asticella della qualità.
A cominciare dallo Sharpless di Gevorg Hakobyan dalla voce ampia e un timbro caldo, vellutato ricco di colori. Abbraccia in modo completo e sinceramente sentito il ruolo del console che mette in guardia Pinkerton dalle sue azioni e che prova al contempo una sincera pietà per quela fanciulla Giapponese che non si arrende alla realtà.
Suzuki è una eccellente Elena Zilio ammirabile per timbro, potenza ed espressività. Tratteggia con garbo e grande efficacia la domestica di Butterfly che, dietro un atteggiamento dolcemente servile nasconde un affetto autentico, quasi materno dimostrandosi partecipe alle sue sofferenze e tormentata dal non riuscire a farla ragionare.
Il sensale di matrimonio Goro è interpretato dall’ottimo Matteo Mezzaro che, ad un mezzo vocale solido impreziosito da un buon timbro, unisce un’interpretazione che coglie perfettamente il personaggio nella sua indole di smaliziato opportunista.
A rivestire il ruolo di Pinkerton è un Roberto Alagna perfettamente a suo agio nella divisa dell’Ufficiale americano. L’arrivo è quello di un giovane divertito, più amichevolmente scherzoso che freddamente sarcastico, persino simpatico nel suo fare scanzonato.
Seducente, ammaliatore, trascinato dal gusto dell’avventura e dalle nuove esperienze.
Sottovaluta le conseguenze delle sue azioni, e come un abile ragno tesse la sua tela fatta di dolci parole e di melliflue melodie.
Incanta Butterfly e conquista il pubblico con una sicurezza scenica che lo rende irresistibile.
Il fascino virile, la brillantezza del timbro unita alla capacità di ammantare ogni parola di segni espressivi lo rendono pericolosamente amabile. E’ impossibile non provare attrazione per lui.
Alagna scava nel personaggio per avvicinarlo alla sua sensibilità e restituirlo più sfaccettato.
Lascia trasparire dalla sua interpretazione, e dai suoi gesti sempre perfettamente calibrati, una complessità maggiore che lo condurrà ad una presa di coscienza sincera.
E lo fa semplicemente assecondando la musica con trasporto e convinzione.
Sul suo viso possiamo leggere l’ampia gamma di emozioni che lo attraversa: dal riso allo scherno, all’affabilità, all’amore. Ed ogni emozione appare tanto sinceramente “vera” che il pubblico è portato a vivere gli stessi turbamenti di Butterfly. Corretto nei dialoghi con il sensale di matrimonio.
E’ turbato quando lei gli confida di avere rinnegato la sua religione. Già sembra intuire la deriva delle sue scelte ma sceglie di ignorare il presagio affascinato dalla conquista.
Eppure appare sincero quando la consola dopo essere stata rinnegata. Così come è sincero nel nido d’amore.
Ma ciò che è vero per un istante non è detto che lo sia per sempre.
Ed è qui che nasce l’equivoco mortale.
Lui crede che l’amore nasca e muoia nel momento in cui si consuma.
Lei pensa che sia eterno.
Particolarmente apprezzabile nel lungo duetto d’amore del primo atto con le voci e i corpi che armonizzano in perfetta sinergia.
Emozionante in “Addio fiorito asil…” da cui traspare sincera commozione, scevra da ogni ipocrisia, mettendoci davanti ad un giovane vinto dal rimorso, che si è lasciato trascinare dagli eventi, dall’avventura, dal desiderio, senza mettere in conto le conseguenze dei suoi gesti.
E’ già diventato consapevole dei suoi errori anche se ancora non ne avverte la reale portata.
Aleksandra Kurzak piega il suo opulento mezzo vocale alle esigenze del personaggio imponendo una Butterfly eterea, leggiadra, dalla emissione limpida e cristallina impreziosita da luminosi filati. Le movenze curatissime sono eleganti, misurate come le espressioni del viso. Il risultato è una giovane donna graziosa ma non stucchevole. Tenera, vulnerabile ma anche ostinata e caratterizzata da una tenacia che si rivela essere, per lei, una maledizione.
Domina il secondo atto trascinando il pubblico nella sua intima tragedia. Ancora appesa ad un sottile filo di speranza che le fa sognare un futuro felice e che descrive a Suzuki con cura raffinata in “Un bel dì vedremo…” di dolce e lucente bellezza dove favoleggia con crescente fiducia l’arrivo dell’amato.
I fiati sono sapientemente amministrati, la parola abilmente scolpita e ammantata di espressività, il registro acuto sicuro e potente.
Un’esecuzione che appare particolarmente sentita e che smuove gli animi fin nel profondo.
La Direzione di Daniel Oren è precisa e attenta alle dinamiche teatrali. Dosa ad arte poesia e dramma con gesti a volte aggraziati, a volte impetuosi e risoluti che non di rado accompagna con ordini vocali.
Forte di una conoscenza approfondita dell’Opera trae dall’Orchestra della Fondazione Arena di Verona un suono omogeneo che plasma a suo piacimento per sostenere i cantanti, rafforzare l’azione, raggiungere il giusto pathos drammatico ma anche apici di dolcezza inenarrabili.
Come nel coro a bocca chiusa, diretto dal M° Roberto Gabbiani, dove l’armonia delle voci si unisce alla tenerezza dell’orchestrazione.
Mentre il buio scende, piano piano, si accendono le luci sulla collina e illuminano vaghe figure che sembrano prendere vita dalle rocce stesse, dai cespugli, dall’acqua.
Sono i kami, gli spiriti di una natura benevola, che eseguono movimenti sinuosi ed evocativi.
Sono loro a vegliare sulla tenue farfalla mentre attende il suo amore in una notte che sembra non finire mai.
Una notte dove la speranza si intreccia alla paura.
Solo loro sembrano capirla ed averne intuito il tragico destino.
I movimenti coreografici sono curati da Maria Grazia Garofoli, il coordinatore del ballo Gaetano Petrosino.
Tutti bravissimi gli interpreti nei ruoli di contorno capaci di dare spessore interpretativo ai personaggi e ad inserirsi perfettamente nelle dinamiche teatrali risultando sempre incisivi.
Italo Proferisce è un orgoglioso e vocalmente sontuoso Principe Yamadori.
Lo zio bonzo è interpretato con spietata determinazione da Gabriele Sagona, il commissario imperiale è un ottimo Gianfranco Montresor, mentre l’ufficiale del registro è un pregevole Stefano Rinaldi Miliani. Brave anche Federica Spatola e Valeria Saladino nei panni rispettivamente della madre di Butterfly e di sua cugina.
Persino il bambino, il piccolo Dolore, è interpretato in modo verosimile, interagisce con gli interpreti e mostra empatia nei confronti della madre.
Una menzione particolare per la Kate Pinkerton di Clarissa Leonardi che enfatizza la sua richiesta ansiosa di avere il bambino.
Quel suo “E il figlio lo darà?” è così accorato e imperioso che lo stesso Console rimane colpito e, frenandola con una mano, quasi le implora di zittirsi.
Troppo tardi. Butterfly ha sentito. E’ la sua condanna. Svanita anche l’ultima illusione non le resta più niente tranne il vuoto, il buio, il gelo.
La luce, i colori, la felicità degli altri sono causa di un dolore immenso.
Le ampie maniche del kimono indossate nel suo giorno di nozze danzano come ali sferzate dal vento e dalla disperazione. Si dibatte come una farfalla in trappola che non sa trovare una via d’uscita che non sia quella del sacrificio.
E lei che ha scelto l’America come sua Patria ritorna ad abbracciare la sua cultura morendo come un Samurai.
Con indosso un kimono bianco, simbolo di purezza e di lutto. Abito di nozze e di funerale.
Scegliendo di stracciare le proprie viscere perché il dolore che ne consegue è il più intenso.
L’unico dolore che può competere con quello che le spezza il cuore.
L’arrivo di Pinkerton trafelato e disperato non fa che rendere più grande la tragedia.
Dalla cima della collina la vede, morente, che allunga la mano per cercarlo.
L’urlo di lui che chiama ripetutamente “Butterfly…” colpisce il cuore dello spettatore come una stilettata.
C’è dentro quell’invocazione disperata un’ammissione di colpa, una richiesta di perdono, una ultima dichiarazione d’amore.
La mano dell’uomo si tende per cercare di raggiungerla ma è ormai troppo tardi e lei scompare abbracciata dalla collina che si richiude.
Ed è un finale che trova perfettamente riscontro nella bellezza della musica di Puccini e ci riconcilia con entrambi i suoi protagonisti vittime del “gioco” di lui, trasformatosi in tragedia per entrambi.
Loredana Atzei
La recensione si riferisce alla serata del 12 Agosto 2023.
Photo credits: Ennevi Foto - Fondazione Arena di Verona