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Il Teatro Mazzacorati sotto la Direzione artistica di Francesca Pedaci, nell’ambito della rassegna “Passione in musica”, presenta il 29 Marzo quella che considera la sua punta di diamante: la mostra “Contaminazioni” dell’artista Giulio Pedaci.
Durante la mostra si potranno ammirare diverse opere la cui caratteristica fondamentale (ma non la sola, né la più importante) è l’unione del gusto classico con la modernità della tecnologia, il tutto in un contesto multimediale per cui lo spettatore si troverà immerso in diverse sollecitazioni che coinvolgeranno i cinque sensi con l’invito però a superarli per andare oltre.
Per questo ai fruitori della mostra si consiglia di arrivare con un telefonino capace di scansionare i QRcode e con gli auricolari, visto che saranno indispensabili per intraprendere quello che sarà un vero e proprio viaggio nell’arte e nelle emozioni.
Giulio Pedaci ha studiato pittura all’Accademia delle Belle Arti di Bologna dove risiede, ha lavorato come post-produttore fotografico per importantissime aziende nazionali e internazionali, ed è attualmente titolare della società Ritoccando S.r.l.
La pittura sia su tela che digitale rimane per lui il fulcro della sua arte, ma i sentimenti di cui si alimenta spesso vengono dall’ascolto delle opere, siano esse sinfoniche che liriche.
Ecco allora che dall’incontro di questi mondi apparentemente distinti nasce qualcosa di unico.
Durante il mio breve soggiorno a Bologna per recensire “La serva padrona” andata in scena il 5 Marzo ho l’occasione di conoscere questo importante artista e non mi lascio sfuggire l’occasione di intervistarlo per conoscere meglio il suo lavoro.
Cominciamo dalle tue grandi passioni: musica e pittura. Come sei riuscito a far convergere queste due forme d’arte?
Questa esigenza è nata nel momento stesso in cui io ho iniziato a dipingere in modo classico con tela e pennelli. Io infatti provengo dalla Accademia delle Belle Arti e mi sono laureato in pittura. Ho poi continuato questo percorso artistico anche quando mi sono appassionato di PC. Mi sono impadronito delle tecniche di correzione cromatica e manipolazione dell’immagine, ma anche per la creazione vera e propria di dipinti digitali. Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di cercare di coniugare i vari mondi che mi appassionavano e che erano quelli dell’arte, della cultura, della musica, ma anche dell’arte e della tecnologia. Perché la tecnologia, se usata in un certo modo, può fare arte. E da questa necessità è nata “Contaminazioni” che vuole essere l’unione di mondi veramente diversi.
Come sei riuscito a far convivere questi mondi apparentemente così distanti?
Nel momento in cui ascolto un’aria d’opera o una sinfonia, nella mia testa partono delle immagini. E ciò che vedo, ciò che sento, lo devo dipingere. La musica quindi è sempre stata la mia stella polare. Quella da seguire. Se ascolto qualcosa che mi da delle sensazioni e fa vibrare le mie corde allora in quel momento sento il bisogno di concretizzare quelle immagini che la musica mi suggerisce. E la tecnologia fa sì che io possa comunicare il mio messaggio usando la multimedialità.
Ossia unendo la visione del quadro, l’ascolto della musica che mi ha ispirato e la lettura di una frase che fornisce ulteriori elementi di comprensione.
Perché secondo me le immagini per essere veramente viste devono essere ascoltate altrimenti non si comprendono in tutti i loro aspetti. Se manca una di queste componenti si avrà sempre e solo una visione parziale e invece io fornisco tutti gli elementi per vedere l’opera nella sua interezza.
Una delle opere che hai realizzato ultimamente è stata quella per la locandina de: “Il Trovatore” rappresentato al teatro Coccia sotto la Direzione di Corinne Baroni. Come è stata questa esperienza? E cosa vuol significare esattamente il quadro che hai creato e che vede la rappresentazione di una madre che tiene teneramente in braccio il suo bambino?
Questa è stata un’esperienza che mi ha fatto tanto gioire quanto soffrire. Gioire perché è stato gratificante dal punto di vista lavorativo. Questo tipo di operazione è nata dalla lungimiranza del Direttore del teatro Coccia di Novara Corinne Baroni che ha visto il materiale che io avevo cominciato a produrre e ha avuto la grande sensibilità di capire le potenzialità di quello che potevo fare. Quando mi ha chiesto di trovare un’immagine per la locandina de Il trovatore io ho accettato con entusiasmo. Poi però ho cominciato il lavoro, mi sono calato profondamente nell’opera e lì è emersa la sofferenza perché è talmente bella, colpisce talmente in profondità che ciò che arriva è così intenso da essere doloroso. A questo punto si è formata in me l’immagine di una donna con un bimbo che rappresenta appunto Azucena, la zingara che poi compirà il gesto terribile di gettare il bambino nel fuoco. E ho intitolato quell’opera “Il peccato originale” . E questa è la chiave di lettura. Tutto quello che succede appunto nel Trovatore è frutto di una follia iniziale senza la quale non sarebbe esistita l’opera. Ed è un’aria particolarmente toccante quella a cui fa riferimento l’immagine del peccato originale: “Deh, narra quella storia funesta…” che è talmente bella, appunto, da far soffrire. Non so come spiegare. Quando una cosa è troppo bella le emozioni e le corde vibrano talmente tanto che è una sofferenza però è una di quelle sofferenze per cui è dolce naufragare in quel mare.
Ci hai lavorato talmente tanto che non puoi non esserti fatto un’idea di questa donna e madre. Cosa pensi di Azucena?
Penso che sia un personaggio che probabilmente se non fosse successo quello che è successo a sua madre non avrebbe avuto quella sorte. La sua vita è stata marchiata dal pregiudizio in quanto sua madre era zingara e in quanto tale è stata condannata al rogo. Vedere sua madre portata al rogo e bruciata davanti ai suoi occhi questo l’ha devastata. E da lì prende il via tutta una serie di eventi nefasti che non si riescono più a fermare.
Quindi in realtà la genesi di quel peccato originale è proprio il pregiudizio.
Ma secondo te Azucena ama Manrico, quel figlio che ha cresciuto come se fosse suo?
La grandezza della cattiveria di Azucena, dalla quale nasce questa opera che è entrata nell’olimpo dell’arte, è la sua decisione di far vivere il figlio del Conte continuando però a meditare vendetta. Il terribile gesto che ha fatto, gettare nel fuoco il suo figlio naturale pensando che fosse il figlio del Conte, è stato talmente atroce che la ha corrosa dentro. L’ha corrotta talmente tanto che alla fine di fronte alla morte di Manrico le sue parole sono “Sei vendicata, o madre!”.
Quindi tutto l’amore che ha riversato nel figlio adottivo viene annullato in un istante dalla visione della vendetta ottenuta per la madre. E’ terribile.
Il 29 Marzo presenterai la tua mostra dal titolo “Contaminazioni” nel corso della rassegna Passione in musica nello splendido Teatro storico di Villa Mazzacorati gestito in modo egregio da Fabio Mauri, Presidente dell’Associazione Succede solo a Bologna.
Come proporrai le tue opere al pubblico?
Ho cercato di provare a far vedere e sentire le vibrazioni delle corde più interne che sono quelle che smuovono me quando vedo le immagini che poi dipingerò. Ho provato a far sì che la mostra non si limiti soltanto alla visione dell’immagine che propongo. Il mio scopo è quello di attirare il pubblico dentro il vero significato dell’immagine che è posto ad un livello più profondo che non è quello della mera apparenza.
Faccio questo dando la possibilità di ascoltare, di leggere, di vedere utilizzando la tecnologia, ossia aggiungendo alle opere dei QRcode che possono essere inquadrati con i cellulari e grazie a questa possibilità gli ospiti della mostra avranno la possibilità di integrare l’immagine con contributi sonori e non solo.
In alcuni casi la sveleranno, la completeranno sicuramente, ma questa integrazione è mirata proprio a portare le sensazioni di chi guarda ad un livello superiore, non più limitato all’immagine.
I nostri sensi vanno oltre questi cinque sensi. La mia sfida è portare lo spettatore in un universo più ampio e che è quello in cui vivo le mie opere. Questo è il mio modo di far sì che lo spirito si liberi. Non c’è solo il tatto, il gusto, l’olfatto, la vista, l’udito, c’è qualcosa di più. Io invito tutti a guardare oltre.
Dobbiamo tutti guardare oltre la siepe, ce lo diceva lo stesso Leopardi. Estendiamo il nostro sguardo per trovare qualcosa di superiore, di diverso, e più ampio. Io cerco di vivere la mia arte in questo modo e cerco di dare modo agli altri di avere una sensazione vicina a quella che provo io nel realizzare le mie opere. Avere queste sensazioni, queste emozioni fa gioire l’anima, ci fanno volgere lo sguardo verso l’incanto ma tutto questo ha un prezzo. Perché si gioisce ma si soffre anche. Non soffri perché senti uno che sta raccontando una storia triste. Soffri perché in quel momento sei tu che vivi quella tragedia. Sei tu nella storia. In quella storia. Il dolore è il tuo, non è più quello di Azucena nel Trovatore o di Violetta nella Traviata. Ecco, io faccio mio il dolore che è quello dei personaggi di queste storie tragiche e invito il mio pubblico ad immergersi in questo dolore e farlo suo come se lo stesse vivendo. Queste sono le emozioni che cerco di trasferire con la mia arte. Anche la follia di Azucena diventerà dello spettatore.
Per arrivare a questo è necessario alzare il livello della comunicazione. Andare oltre quelli che sono i sensi che un po’ ci limitano.
Chiaramente nella mostra io consiglio, anzi sarebbe tassativo, venire con il telefonino capace di leggere i QRcode in modo da integrare l’immagine e con gli auricolari per potersi immergere nella musica. Sia per non disturbare il vicino che si trova immerso in un’altra opera sia per compiere appunto questo viaggio nelle emozioni in pieno isolamento da tutto il resto. E così di fronte al quadro sarà possibile integrare l’opera e scoprire cosa ha da dire.
Quali sono le opere che tratti in questa mostra?
Ci sarà il quadro di Azucena con il bambino in mano, ma anche un’opera rivolta alla Traviata con il sottotitolo di “Addio, del passato”. Ma non ci sono solo arie d’opera ad avermi ispirato. Ci sono anche sinfonie.
In genere prendo spunto da sculture dei grandi maestri del passato, anche recente, per ridisegnarle, dipingerle completamente al computer modificandole e adattandole al mio pensiero e alle cose che io voglio dire. Quindi le interpreto.
E ogni opera ha un messaggio ben preciso. Ce l’ha il “Confutatis maledictis” ce l’ha “Addio, del passato”, ce l’ha “I had a dream”, ce l’hanno tutte. Ce l’ha pure “L’ospite inatteso”.
Non dico nulla a riguardo perché non voglio guastare la sorpresa a chi verrà. Voglio lasciare la bellezza dello scoprire le cose. Una cosa importante da dire, e che spiega anche il senso di ciò che faccio, è che vengo dal surrealismo e per me mai niente deve essere banale. Cerco semplicemente di portare alla luce ciò che io vedo. E spesso per dare il messaggio che voglio uso il meccanismo del paradosso. Come dipingere Azucena con il bambino in braccio e intitolare l’opera “Il peccato originale.” Ci si ribella a quel messaggio se non nel momento in cui io come sottotitolo metto “Deh, narra quella storia funesta.” In quel momento allora tutto acquisisce un senso.
Non metto nulla a caso per fare effetto o per piacere. Non è quello che cerco. Non voglio piacere ad ogni costo. Voglio solo far vivere un viaggio nelle emozioni. Quel viaggio che vivo io quando quelle opere le creo.
Ho fatto queste cose perché le dovevo fare. Era un esigenza che chi è artista può capire bene. Nessuno mi ha ordinato di fare ciò che faccio ma ne ho bisogno per sentirmi completo come artista ma anche come essere umano.
Sono opere le tue che sono portatrici di messaggi forti e importanti.
Ci sono sicuramente i messaggi che alla fine nascono tutti dall’esigenza di liberarci dalle convinzioni, dai pregiudizi, dai canoni della nostra società che sono limitanti. La maggior parte di noi cammina a testa bassa e si ferma alla prima pietrina che vede sulla strada. Il mio è un invito ad alzare lo sguardo verso il cielo per vedere un panorama molto più ampio. Io non vorrei che ci riducessimo tutti a guardare le pietrine che ci sono per terra e ci privassimo delle stelle.
Tu conosci bene le tecnologie e le sfrutti anche se i tuoi riferimenti sono legati al mondo classico. Cosa pensi delle A.I. che si stanno già usando nell’industria delle illustrazioni? E’ uno strumento o un limite?
Io sono anche un post-produttore fotografico come ben sai. Quando chi fa questo tipo di mestiere ha tante possibilità che vanno dai filtri ai vari pacchetti di applicazioni che ti consentono di applicare i più svariati effetti. Perché mi collego a questo? Ecco, io nella mia arte non uso queste scorciatoie. Non uso filtri per creare degli effetti. Sono io che faccio gli effetti, creandoli io attraverso dei passaggi. Questo perché pretendo di avere io le mani sul quadro comandi. Devo avere il controllo totale della mia opera, del DNA di quello che ho fatto.
Ecco l’intelligenza artificiale non la vedo né bene né male nel senso che non mi pongo dei limiti. Li pongo invece a chi utilizza quel mezzo. E’ un mezzo fantastico se lo utilizzi per quello che è: uno strumento.
Può essere un aiuto, non una sostituzione, però. Se tu pensi che l’A.I. ti possa sostituire vuol dire che il tuo lavoro è così meccanico che eri già sostituibile prima che venisse creato questo strumento.
Leggo che basta scrivere delle parole chiave e ti compare un articolo piuttosto che una canzone o un’immagine.
Non dirò la banalità per cui “Si, ma il cuore dove lo metti?”.
Io mi chiedo però dov’è la visione che noi abbiamo dell’universo. Quei sensi che vanno oltre i cinque noti, dove li mettiamo? La sofferenza che fa sì che tutte le corde vibrino insieme dove sono? Alle volte la sofferenza nel fare un lavoro è talmente forte che crea delle esplosioni per simpatia per cui si arriva ad un tale coinvolgimento che nemmeno io che creo riesco a definire completamente. Non riesco a definirle ma le sento, le conosco e so che esistono.
L’intelligenza artificiale per quanto sofisticato resta un programma e tutto questo non lo può avere.
E questo è il limite della A.I..
L’intelligenza artificiale va benissimo se ci aiuta a fare delle cose, non se ce le fa lei. Se rinunciamo a questo perderemo anche quel poco che ci rimane di quell’umanità che ci ha fatto grandi nel passato.
Il rischio nell’usare le A.I. è anche quello di abituare il pubblico ad una serie di immagini stock, semplificate, piatte e anche antiestetiche, almeno da quello che sto vedendo in giro. Dove anche il gusto per la composizione è annullato.
Sì, il rischio è che diventi qualcosa che ci porta alla noia. Tutti i messaggi sono permeati di questo appiattimento, anzi, abbrutimento. Sembra che si voglia davvero disabituare il pubblico al bello. Vale anche per le pubblicità che sono in gran parte tutte uguali, tutte con toni e storie tranquillizzanti per il “consumatore inconsapevole”, poi però viene lo spot che ti spiazza proprio perché non è stato fatto con lo stesso format. Ecco, il coraggio di fare qualcosa con uno stile personale e diverso fa la differenza. Quella colpisce perché dietro quel tipo di comunicazione c’è un lavoro creativo che va oltre la solita linea produttiva.
Convinci il pubblico a venire alla tua mostra.
Nel corso degli anni ho sperimentato vari linguaggi, artistici e non, per raffigurare quelle che sono le mie emozioni, i miei tormenti e le mie gioie.
Sono arrivato alla conclusione che bastava che smettessi di guardare ogni volta in una direzione diversa, perché quello che cercavo era tutto intorno a me.
Non so se sono riuscito a rinchiudere il cielo in una stanza, ma chi verrà alla mia mostra saprà che ho provato a volgere lo sguardo oltre la siepe.
Giulio Pedaci - “Confutatis Maledictis”
Giulio Pedaci - “Il Trovatore”