La Traviata al Verdi di Trieste.
Recensione di Gianluca Macovez
‘La Traviata’ con la regia di Bernard e la direzione di Calesso inaugura la stagione 24-25 del Verdi di Trieste
Due compagnie profondamente differenti si confrontano con la storia di Violetta Valery
‘La Traviata’ è molto amata dal pubblico di Trieste: basti dire che nel secondo millennio si contano già otto allestimenti di questo titolo
Sono stati spettacoli dagli esiti differenti: alcuni grandi interpreti, qualche delusione musicale, allestimenti storici, altri meno interessanti.
Ogni volta, comunque, entusiasmanti riscontri al botteghino, a riprova di quanto il pubblico triestino ami questo capolavoro.
‘La Traviata’ probabilmente soffre di troppa fama, nel senso che la sua popolarità pare inchiodarla ad una visione romantica, drammatica, molto tradizionale, mentre la partitura ha una forte componente sperimentale, modernissima, profondamente lontana dalle visioni televisive dei brindisi, con tanti lustrini, partecipazioni speciali inimmaginabili, ritmi approssimativi, acuti stentati, da capo inventati.
Invece questo è titolo poetico, intenso, ricco di sfumature, studiato nei suoni e nei versi.
Verdi ha raccontato se’ stesso, il suo mondo, attraverso le note intrise nel dolore, le pause sporche di sacrificio, il leit motiv che ritorna, sempre più implacabile, tante volte come troppe volte la sventura si era abbattuta sulla sua vita. Su questa partitura ha pianto, raccontato la sua vedovanza, la sua solitudine disperata, il desiderio di abbandonare una vita nella quale sembrava non ritrovarsi più e poi il tuffarsi negli ‘anni di galera’ per cercare di pensare ad altro che ai dolori tremendi che lo attanagliavano e che comunque non lo abbandonarono mai.
Studiando i bozzetti della prima, che Verdi commissionò ai suoi scenografi di fiducia Giuseppe e Pietro Bertoja, emerge che il compositore cercava una atmosfera disincantata, dominata da tensioni cromatiche dissonanti: il Salone di Flora, per esempio, è ricco di gialli taglienti, verdi aspri, che contrastano con le forme opulente di specchi e mobili, simulacri di un mondo di apparenze e di finzioni che stigmatizzano il sacrificio di Violetta.
Certo per cogliere questo aspetto non abbiamo guardato le fotografie delle scenografie, che per certi studiosi paiono essere l’unica fonte attendibile, ma, visto che sapevamo che per anni i fogli erano stati appesi alle pareti di casa e quindi erano stati sbiaditi dalla luce, abbiamo cercato gli originali e trovato i colori originari rimuovendo il bordo del passe-partout, a riaffermare come nulla nel lavoro del musicista di Busseto sia prevedibile o scontato .
Verdi credeva fondamentale che gli interpreti del suo lavoro fossero attendibili fisicamente. Non cercava soltanto virtuosi del belcanto ma figure credibili ed attribuì un grosso peso dell’insuccesso della prima, proprio alla poca aderenza fisica ai ruoli dei cantanti chiamati ad interpretare le parti: non riteneva, a differenza di tanta della critica odierna, che fossero prioritarie le acrobazie vocali ma l’autenticità, la narrazione forte, nella quale ciascuno potesse ritrovare qualcosa di sé.
Il Teatro Verdi, che da qualche stagione sta aprendosi alle voci più interessanti della regia in un percorso coraggioso e meritorio di sostegno, ha invitato per l’occasione il regista Arnaud Bernard, fresco del successo delle tre Manon a Torino.
Francamente lo spettacolo proposto è certamente piacevole dal punto di vista estetico, ma ci pare solo in parte riuscito
La vicenda viene spostata negli anni Cinquanta, come fa capire anche il bel manifesto che rimanda alla Callas vestita da Biki.
Erano gli anni della ricostruzione, del ritorno di Trieste all’Italia, delle prime rivalse femministe, dei delitti d’onore e della discesa delle prime donne in politica.
Nulla di questo viene portato in palcoscenico a motivare lo spostamento.
Di fatto la scena, ideata da Alessandro Camera, è fuori dal tempo, quasi metafisica, con una bicromia abbastanza costante, che alterna i pochi arredi bianchi con dei mobili neri.
I costumi, firmati da Carla Ricotti sono molto eleganti e tutto sommato se non fosse per le gonne di Annina e di Violetta nella casa di campagna non ci renderemmo neanche conto del cambio d’epoca.
Ma che lo spostamento della vicenda sia funzionale ad una rilettura, od ad un arricchimento, è tutto da discutere.
Certamente dall’operazione non emerge una Violetta particolarmente intensa nelle emozioni o coinvolgente nei gesti, nonostante il gran lavoro sulle luci di Emanuele Agliati, che riesce ad evocare, soprattutto nelle scena di massa, momenti di innegabile suggestione.
Lo spettacolo è un inseguirsi di citazioni.
Ci sono gli specchi che rendono onore al celebre allestimento di Svoboda, peraltro proposto anche a Trieste anni fa.
Come si accennava si lavora molto sul tema della bicromia, che richiama alla mente i tanti allestimenti simili, a partire dalla Traviata nel Palasport di Federico Esposito, negli anni Settanta.
Ci sono le foglie, peraltro autunnali anche nell’unico momento di ‘primavera’ nella vicenda, che rimandano a Carsen per la Fenice.
Un ricco lavoro di metateatro, che non sempre appare chiaro negli intenti.
Tanti i momenti che lasciano basiti: dalla prima entrata in scena, Violetta ostenta un bacile nel quale scatarra, o forse vomita, continuamente.
Molti, vien da dire decisamente troppi, gli accoppiamenti in scena, rapidi , brutali, violenti. .
La scena della casa di Flora non lesina gli effetti: le zingarelle sono sostituite da uno stuolo di drag queen in guepierre e frustino, volutamente sgraziati nei movimenti; una bellissima ballerina, al boccascena, allarga spavaldamente le gambe, lasciando sgomento il nobile che occhieggia la vera identità di chi ha di fronte.
Camminatissimi i tavoli: Violetta ci sale, canta, si distende, frantuma i bicchieri e strappa le tovaglie; Alfredo ci cammina, duetta, addirittura si unisce carnalmente all’amata.
Incomprensibile, per chi scrive, che i cantanti non si guardino mai, neanche quando flirtano. Violetta non ha un tavolo per scrivere la lettera e deve appoggiarsi alle pareti per farlo; si lamenta del pallore senza specchiarsi; riposa distesa a terra accanto a dei tappeti arrotolati, che certo non sono una terapia indicata per la tosse che la tormenta.
Un autentico mistero perché le arie siano eseguite quasi sempre ai lati della scena, lasciando il palcoscenico vuoto e soprattutto limitando la visione da palchi e gallerie.
Ci sono, però, anche momento di grandissimo teatro, che riaffermano, anche se non ce n’è bisogno, che al di là dell’apprezzamento o meno per questo spettacolo, Arnaud è uomo di spettacolo intelligente e sensibile.
Indimenticabile il duetto del secondo atto fra Alfredo ed il padre. Germont ritto, solido, severo, il figlio disteso a terra, in posizione fetale, quasi volesse scappare dalle responsabilità dell’età adulta. Il tutto fuori dal tempo e dalla storia, grazie ad un telo nero che scende ed isola quella scena dal contesto rendendo il momento assolutamente metafisico.
Abbiamo assistito a più repliche e, francamente , la resa del coro, diretto dal Maestro Paolo Longo, , è apparsa incomprensibilmente disomogenea, sia sui tempi che sul sincrono, in particolare nella sezione delle voci maschili e spesso tuonante nei volumi.
Forse era dovuto alle richieste di scena, che vedevano i coristi costretti a movimenti concitati alternati ad una repentina e faticosa immobilità, ma certamente è un elemento su cui riflettere.
L’orchestra, un po’ alterna nella resa a seconda della serata cui abbiamo assistito, era guidata con mano sicura e gesto elegante dal Maestro Enrico Calesso, direttore musicale stabile del teatro Verdi da qualche anno, che oltre che musicista sensibile è intellettuale preparato e raffinato.
Lo si vede anche nella lettura che dà della partitura, sulla quale è intervenuto, con un buon sostegno soprattutto della sezione degli archi, dominata dal primo violino Stefano Furini, pulendola da stereotipi, maniere, aggiunte ed ‘abbellimenti’ e riportando in superficie la poetica scabra che Verdi anelava.
I tempi, in particolare nella pomeridiana di sabato, sono risultati insolitamente dilatati, soprattutto nel primo atto, ma man mano che la vicenda si dipanava, si chiarificavano gli intenti interpretativi del Maestro: ogni filo della trama si riannodava, in una tela narrativa intensa , che diventava fortissima nell’ultimo atto, così lucidamente straziante.
Calesso accompagna e sostiene i cantanti, ne mette in evidenza le potenzialità e riesce ad occultare, quando ci sono, i limiti, allineandosi con quella mai abbastanza apprezzata vecchia scuola dei direttori che avevano come fine la riuscita dello spettacolo, non l’esibizione narcisistica ed egoreferenziale che spesso popola i podi odierni.
Nel corso delle repliche si sono alternate, nei ruoli principali, due compagnie , la cui resa è fin troppo differente.
Francamente la sensazione era di assistere a due spettacoli differenti, a tutto vantaggio del primo gruppo di cantanti ed a tutto svantaggio del pubblico.
Questa discrepanza così marcata dovrebbe essere motivo di una riflessione attenta da parte della direzione del teatro, per evitare che riaffiori quel malcontento, soprattutto fra gli abbonati, che già aveva avvelenato le stagioni di qualche anno fa.
Cominciamo dalle parti secondarie, fisse per entrambi i cast.
Fra tutti si è notata la Annina di Veronica Prando, dotata di una voce dal colore luminoso, appropriata tecnicamente, sicura scenicamente.
Molto valida scenicamente, dal punto di vista vocale la Prando ha mostrato una voce dal timbro luminoso, sicura nella tecnica e, nonostante le poche battute, di grande personalità.
Eleonora Vacchi era una Flora dalla bella figura, sontuosa negli abiti, sinuosa nei movimenti; Francesco Verna un appropriato Barone Douphol; il Marchese d'Obigny era un interessante Francesco Auriemma; Andrea Pellegrini, scenicamente imponente e dal suono particolarmente corposo, era il Dottor Grenvil; Saverio Fiore era un esuberante Gastone.
Disinvolti Gianluca Sorrentino come Giuseppe, il domestico di Giuseppe Oliveri e Damiano Locatelli, nella parte di un commissario.
La terna dei protagonisti della seconda compagnia allineava Francesca Sassu, Klodjan Kacani e Federico Longhi.
La Sassu ha affrontato un ruolo onerosissimo con determinazione e buone capacità. Può contare su una voce dai colori suggestivi e drammatici, che se nei primi due atti non sempre emerge per potenza ed agilità, nell’ultimo regala dei momenti di forte commozione, grazie anche ad una abile resa scenica.
Kacani è un tenore giovane dalle interessanti potenzialità che, forse per la tensione del debutto, in qualche momento controlla a fatica lo strumento vocale . Non ci sono errori clamorosi, gli acuti appaiono sicuri ma nell’insieme ha dato l’impressione di dover ancora lavorare su Alfredo, sulla parola, sul modo di porgere la frase, per riuscire a dare al ruolo il giusto spessore e per mettere in risalto appieno le sue doti di interprete.
Federico Longhi è baritono dalla voce possente. Forse anche troppo per un ruolo delicato come Germont, che propone come un uomo brutale nei modi, spiccio, verrebbe da dire violento.
Quando arriva, non si accosta a Violetta con garbo per ottenere un favore: lo pretende. Non ci sono ambiti di reale trattativa: il suo è un modo di porsi che non dà spazio a repliche. La fanciulla appare costretta alla scelta. Una opzione che oltretutto toglie peso al coraggio della sua decisione: ‘Dite alla giovine’ in questo modo sembra una resa, non un dono che fa alla cognata mancata. Pare che il macho della situazione sia proprio l’anziano genitore, invece che il figliolo scavezzacollo.
Va decisamente in altro modo con la prima terna: Schiavo, Poli e Frontali.
Maria Grazia Schiavo, che certamente poteva meglio essere valorizzata nei movimenti, è soprano di valore, con una voce ancora un po’ leggera per questo ruolo, ma in grado di reggere bene lo spettacolo.
Nei primi due atti, le agilità non sono un ostacolo e consento alla cantante di dare il meglio di sé. L’atto conclusivo, cantato con correttezza e misura, avrebbe forse richiesto un peso più corposo, ma il soprano sa regalare comunque momenti d grande suggestione.
La parte di Alfredo era sostenuta da un bravo Antonio Poli, che forte di una ventennale carriera, ha saputo cesellare il ruolo sia musicalmente che dal punto di vista attoriale.
Esuberante in scena e sul pentagramma, sicuro negli acuti, ricchissimo nei fiati, è in possesso di una tavolozza suggestiva di sfumature, che gli consentono di passare da un canto forte e virile ad una gamma di mezzevoci di grande presa.
Porta in scena anche gli aspetti più intimi di Alfredo: l’ansia, le paure, le timidezze, perfino le insicurezze, disegnando un viaggio che porta il giovane baldanzoso a diventare un uomo vero, provato dalla vita e conscio per questo di quali siano i valori che contano.
Roberto Frontali, che mosse i primi passi proprio al Verdi alla fine degli anni Ottanta, ritorna a Trieste, regalando un Germont da antologia, che il pubblico premia con consensi trionfali.
Il Baritono scolpisce ogni parola, soppesa le frasi, vestendole di emozioni che paiono realmente strappata ad un cuore addolorato. Attento, sensibile, partecipe, profondo, pare cercare, fra le pieghe dei silenzi, le giuste modalità per convincere Violetta, senza ferirla troppo, ma anche senza farla esitare a lungo, come se lui stesso avesse paura di non reggere quella richiesta che sa essere ingiusta.
I quasi quaranta anni di carriera non hanno graffiato la voce, che è potente, omogena, sicura negli acuti, ampia nei fiati, ma soprattutto opulenta nei colori e nelle sfumature.
Nessun eccesso, nessun effetto strappa applausi, ma una autentica lezione di canto, che ha incantato la sala e per la quale va tributato un plauso al teatro Verdi che ha riportato a Trieste un autentico Maestro
Alla fine, in ogni replica cui abbiamo assistito, applausi copiosi per tutti da un teatro gremito in ogni ordine di posti, con autentiche ovazioni per la prima compagnia ed in particolare per il direttore ed il Maestro Frontali.
Trieste, Teatro Giuseppe Verdi, stagione d’opera e balletto 2024-25
“La Traviata”
di Giuseppe Verdi
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave dal dramma La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio
Regia ARNAUD BERNARD
Scene ALESSANDRO CAMERA
Costumi CARLA RICOTTI
Light designer EMANUELE AGLIATI
Maestro del Coro PAOLO LONGO
Personaggi e interpreti
Violetta Valéry MARIA GRAZIA SCHIAVO(8, 10, 15, 17/XI)/ FRANCESCA SASSU(9, 16/XI)
Alfredo Germont ANTONIO POLI(8, 10, 15, 17/XI)/KLODJAN KAÇANI(9, 16/XI)
Giorgio Germont ROBERTO FRONTALI(8, 10, 15, 17/XI)/ FEDERICO LONGHI(9, 16/XI)
Flora Bervoix ELEONORA VACCHI
Barone Douphol FRANCESCO VERNA
Marchese d'Obigny FRANCESCO AURIEMMA
Dottor Grenvil ANDREA PELLEGRINI
Gastone SAVERIO FIORE
Annina VERONICA PRANDO
Giuseppe GIANLUCA SORRENTINO
Un domestico di Flora GIUSEPPE OLIVERI
Un commissionario DAMIANO LOCATELLI
Orchestra, Coro e Tecnici della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Lo spettacolo verrà portato in tournée al teatro Giovanni da Udine il 13 dicembre 2024 ed al Teatro Verdi di Pordenone il 19 dicembre 2024