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Note Domenicali n°15 - Madama Butterfly - di Gianluca Macovez

2024-11-18 04:12

Gianluca Macovez

Musicologia generale, Storia della Lirica, Curiosità, musicologia, opera,

Note Domenicali n°15 - Madama Butterfly - di Gianluca Macovez

Gianluca Macovez con questo articolo riassume le sue esperienze come spettatore dell'opera Madama Butterfly

 

 

Madama Butterfly. Pensieri domenicali

di Gianluca Macovez

 

 

 

Il titolo di Puccini è una delle mie opere preferite. 

L’ho ascoltata tante volte, sempre con grande interesse e da almeno trent’anni le cantanti che interpretano Cio-cio-san si sono trovate a duellare con il fantasma della Callas, che nell’edizione discografica dell’opera incisa con Gedda, ha segnato, secondo me, una delle tappe della storia dell’interpretazione di quel personaggio.

Ho ascoltato quel disco talmente tante volte, che da un certo momento lo sentivo prendendo fiato assieme al soprano. 

Immagino che vedere me, pachidermico, sprofondato in poltrona, in una stanza buia che ascolto l’opera cantando in play-back la parte di Cio-cio-san, fosse una immagine veramente ripugnante, l’incubo di ogni melomane: una sorta di orso che entra in camerino e si mangia tutta intera la Callas, che essendo accecata continua imperterrita a cantare la parte incurante del disastro. 

Ritornando ad ipotesi meno spaventose, tutti i miei incontri in teatro con ‘Madama Butterfly’ ebbero luogo a Trieste. 

Non sono stati sempre incontri fortunati. 

Prima di tutto perché vocalmente il ruolo della protagonista è decisamente complesso vocalmente. 

Poi perché teatralmente ci vuole nulla per trasformare la storia di una fanciulla calpestata, nella vicenda di una stupida. 

La direzione deve saper lavorare di fioretto, attenta a narrazione, pathos, tempi e raffinate atmosfere. 

Poi perché ci vogliono un tenore che riesca a cantare benissimo delle arie dalle quali deve emergere che è un cretino. 

Un baritono possente ma non tuonante, che riesca a consolare con la voce ed ad essere spietato nei gesti. 

Un mezzosoprano che regga sulle spalle tutta l’opera, rimanendo un passo indietro rispetto alla protagonista, anche quando questa è mediocre, perché altrimenti gli equilibri si spappolano. 

Infine ci vuole una regia vera, seria, intelligente, che non riduca tutto a maniera.

 

 

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Quindi in definitiva ascoltare e vedere una bella ‘Madama Butterfly’ è raro. 

Ma non impossibile. 

Anche perché alle volte c’è qualcosa che non va, ma può succedere che decidi che non te ne importa. 

La prima Cio-cio-san, nel 1972, è stata il soprano italo-canadese Maria Pellegrini. 

F atta la premessa che avevo nove anni e quindi non ero in grado di grandi giudizi tecnici, la prova della cantante per me era stata superlativa. 

Affascinante vocalmente ed ancor più scenicamente, supportata dalla intelligente regia di Marta Lantieri e dalla sicura direzione di Maurizio Arena, rese la vicenda assolutamente struggente. 

Un giovane fiore, ingenuo e di grande candore, al quale le vicende narrate strappano il bellissimo sorriso con cui si è presentata in scena, sempre più sola e sempre più disillusa.

Evitò bamboleggiamenti esagerati, esotismi di facciata, atteggiamenti da primadonna, pur senza rinunciare alla cifra fanciullesca, al tema dell’oriente, alla coscienza di essere il centro di tutta la storia.

Riuscì ad essere tradizionale ma non manierata, in un gioco di equilibri mancato da diverse delle sue colleghe che ascoltai negli anni successivi in questa parte.

Tanto lei si presentò mite e pura, tanto seppe essere cinico e tronfio, proprio come deve essere lo yankee americano, il tenore Ottavio Garaventa, chiamato in tutta fretta a sostituire l’emergente Ruggero Bondino, ammalatosi.

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Garaventa, che qualche anno dopo ascoltai in ‘Katia Kabanova’ in un allestimento impreziosito dalla regia di Margarita Wallmann, diede una grande prova sul palcoscenico, ma fu squisito nei confronti del collega assente anche in camerino: quando andai a chiedergli di autografare il manifesto, che brillava di un evidente annuncio della sua presenza, firmò il retro, spiegando che lo faceva perchè il vero titolare dello spettacolo era il collega, al quale non voleva usurpare l’onore del ruolo da titolare.

Attenzione non da poco, se pensiamo che Bondino era agli esordi e Garaventa invece aveva già più di dieci anni di successi alle spalle, sia in Italia che in America, dove aveva interpretato proprio la parte di Pinkerton.

Due fuoriclasse negli altri ruoli principali: Anna di Stasio, e Renato Ercolani, che regalarono ai loro personaggi la grande esperienza di palcoscenico ed una voce dall’impronta riconoscibile. 

Riuscirono ad essere grandi professionisti senza essere mestieranti. 

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Non fecero pesare i fantasmi delle altre volte che avevano portato in scena quei personaggi, offrendo una prova credibile e soprattutto integrata nella narrazione della serata.

Il tutto in una scenografia personale, anche se molto tradizionale, di Tito Varisco. 

Una volta uscito dallo spettacolo, avevo chiara la vicenda, i personaggi, le arie. 

Una vera immersione completa nel mondo giapponese. 

Stesso direttore, anche se con un diverso regista, sette anni dopo, per la Butterfly di Elena Mauti Nunziata, che mi aveva ammaliato in ‘Suor Angelica’ nel 1974, ma che nel ruolo della sfortunata giapponese non riuscì a rinnovare l’entusiasmo.

Al suo fianco Giuliano Ciannella e Giulio Fioravanti. 

Tutti corretti bravi professionisti, cantanti dotati di voci interessanti, ma nessuno di loro seppe, in quella occasione, essere magico. 

Uno spettacolo che scivolò via, come una cartolina giapponese, un po’ datata e di maniera.

Certamente non un dramma universale.

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Nel 1984 Baldo Podic diresse una edizione che portava le firme di Mario Bolognini per la regia e Carlo Savi come scenografo. 

La protagonista era Marion Vernette Moore, che riuscì a conquistare il pubblico triestino immediatamente. 

Era una situazione per certi versi paradossale: una cantante di colore, vestita da giapponese, che canta in italiano. 

Ebbene, era assolutamente credibile. 

Una giovane nipponica doc, che nessuno avrebbe osato mettere in discussione. 

Perché l’opera non conosce confini, razzismi, differenze, divisioni. 

Recenti polemiche, a mio parere, non sono difesa dei diritti, ma solo elemosina di una attenzione che probabilmente le prove vocali non avrebbero dato, oltre che la testimonianza di non aver capito niente del mondo dell’opera e dell’arte.

Beniamino Prior era un esuberante Pinkerton. 

Credibile nella potenza vocale e nella baldanza fisica. 

Molti anni dopo lo intervistai e chiesi quanto fosse difficile portare in scena un uomo odioso come il soldato americano. 

Mi rispose descrivendo le difficoltà vocali del ruolo e capii che avevamo visioni differenti del personaggio. 

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Il console era il sempre bravo Angelo Romero, un baritono eclettico come pochi, padrone della tecnica, con una bella pasta vocale, ma soprattutto capace di interpretare con la giusta credibilità i personaggi, senza ricorrere a quegli strumenti biechi che hanno fatto la fortuna di tanti suoi colleghi. 

Le altre donne in scena erano Laura Zannini e Cinzia De Mola, cantanti che ho apprezzato moltissimo e che avrebbero meritato ancora più occasioni per consolidare una fama, che pur rilevante, è stata inferiore ai loro meriti. 

Nel 1989 approda a Trieste lo spettacolo di Stefano Vizioli, con le celebri scene di Aldo Rossi. 

Continua a dirigere Maurizio Arena, che è stato monopolista del titolo a Trieste per quasi vent’anni. 

Cantano l’ambasciatore corretto, ma poco coinvolgente, di Barry Anderson, l’aitante Pinkerton di Nazzareno Antinori, la contrita Suzuki di Serena Lazzarini, ascoltata tante volte e sempre affidabile e soprattutto Adriana Morelli. 

In quel momento il soprano aveva un mezzo vocale bellissimo, che sapeva usare con grande sapienza. 

E’ una Cio-cio-san molto intensa la sua. 

Poco bambina, molto vittima, profumata di Kabuki e teatro No.

La recitazione risultava un po’ marcata, ma quello che con il passare del tempo si concretizzerà in un atteggiamento un po’ da diva che in certi casi riuscì ad infastidirmi, in questo momento apparì come un gioco raffinato, con una espressività che rimandava all’idea di teatro dei primi del Novecento, a cavallo fra Eleonora Duse e l’idea di esotismo. 

In ogni caso non la storia di una giovane fanciulla, ma la sua rappresentazione. 

A fine millennio, nel 1997, un’edizione scenicamente non indimenticabile, nonostante la firma illustre di Ulisse Santicchi. 

Nei ruoli maschili Carlo Ventre, tenore dalla voce possente ma privo di carisma in questo ruolo così ingrato ed il baritono Vittorio Vitelli, che interpretava il ruolo che a Trieste era stato del suo maestro Giulio Fioravanti, senza lasciare un grosso ricordo. 

Quello che travolse tutti fu il personaggio di Cio-cio-san: Sun Xiu Wei riuscì ad essere credibile scenicamente ed inattaccabile vocalmente. 

Introdotta da una nota d’ingresso adamantina, lunghissima, offerta come un soffio di vento caldo, che attraversava il teatro illuminandolo, ci conduce per mano in un racconto sempre più drammatico, costruito in modo solido sia musicalmente che drammaturgicamente. 

Alla fine è sola, nonostante il gran muoversi intorno a lei. 

Ha ritagliato una autorevolezza ed una forza che rendono gli altri subalterni: quello che emerge non è tanto la storia di una giapponese abusata, ma il racconto di un reiterato abbandono: del padre, della famiglia, dell’uomo che ama, della propria identità, delle speranze, del figlio fino ad arrivare alla scelta di morire. 

La prima occasione di scegliere veramente qualcosa. 

Una prova indimenticabile, che non bisserà nelle due successive occasioni in cui l’ho applaudita: ‘Attila’ ed ‘Andrea Chenier’, nelle quali ascoltai una buona professionista, ma non una magica interprete come in questa occasione 

Nel 2002 si concretizzarono le condizioni per una di quelle edizioni che definire storiche è poco. 

Le scene di Bisleri e la regia di Tiezzi evocarono un Giappone suggestivo, cromaticamente intenso, ricco di metafore ed intenso nelle immagini. 

Sul palcoscenico uno sfrontato Mario Malagnini, in parte vocalmente oltre che scenicamente, il possente Alberto Mastromarino, l’intensa Chiara Chialli. 

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Ma soprattutto Fiorenza Cedolins, che avevo già ascoltato da corista, poi da comprimaria con poche frasi nelle ‘Nozze di Figaro’ a Venezia nel 1991, infine come Mimì nel 2001. 

La sua Cio-cio-san è di una drammaticità assoluta, intensa e poetica. 

Quello che Cedolins regala ad un teatro che rapito dalla sua magia è stata una prova assoluta, autenticamente magistrale.

Percorri con lei un viaggio che ti devasta. 

Alla fine dell’opera ti accorgi che stai respirando le battute musicali, che continui a piangere in silenzio anche dopo che la giovane fanciulla si è suicidata, perché la tragedia di quella donna non è stata la sua morte ma la sua vita. 

Ti accorgi che quello che hai ascoltato era di purezza metafisica, grazie ad una artista grandissima, che a mio parere in quel momento toccò il massimo della sua parabola artistica. 

Non per la prova ineccepibile dal punto di vista vocale, continuerà a cantare benissimo ancora per tanti anni, ma per la forza drammatica del pathos evocato, per la malia del racconto, per la capacità di immedesimarsi nella vicenda e nel potere di aprire il cuore di chi l’ascoltava. 

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Il titolo di Puccini tornerà spesso negli anni successivi, ma purtroppo, o per fortuna, il miracolo non si ripeté. 

Magnetica la direzione di Oren nel 2005 e piacevole, anche se non altrettanto suggestiva della precedente edizione, la nuova ideazione visiva, firmata Bisleri e Ciabatti. 

Ma Doina Dimitriu nulla può contro il ricordo della Cedolins, ed in realtà esce male anche dal confronto con Sun Xiu Wei con la quale si alternava. 

Svettante il tenore Dvorsky e suggestiva la Suzuky della Curiel. 

Spettacolo piacevole. 

Ma non so se questo è un complimento, perché ‘Madama Butterfly’ ti deve devastare. 

Se discuti di note e filati, vuol dire che la magia non è passata per quel palcoscenico. 

Il teatro triestino era in verità proprio soddisfatto delle scene di questo spettacolo, tanto da portarle in tournee e riproporle sia nel 2010 che nel 2014. 

Nel primo caso Lorenzo Frattini diresse la potente Svetla Vassileva, De Biasio, Rumetz e De Mola. 

La Suzuky di quest’ultima per me era il personaggio più riuscito, intenso, forte, autentico e . 

Non si discutono le note e gli acuti. Non mancavano a nessuno. 

Ma non è questione di ginnastica dell’ugola, è racconto di poesia. Che non trovai. 

Non andò meglio quattro anni dopo. 

Suggestiva la direzione di Renzetti, ma anche a causa di una serie di accidenti di salute il cast fu sottoposto ad una serie di aggiustamenti. 

Lo spettacolo doveva incoronare la bella Amarilli Nizza, che secondo me con questo ruolo ha intrapreso la strada verso la distruzione di uno strumento che era stato delicato. 

Tant’è vero che qualche anno dopo assassinerà la voce con una sconcertante Abigaille. 

Il soprano era decisamente più bella che in parte, vocalmente e scenicamente. 

Era una cantante che interpretava una parte, attenta a cercare di rispettare, senza sempre riuscirci, la partitura, ma lontana dal personaggio , alla sua storia interiore. 

Ascoltai anche Mina Yamazaki, che risolse meglio il ruolo, offrendo al dramma una interpretazione intensa ed una voce usurata ma ancora capace di momenti suggestivi. 

Sul fronte maschile, per entrambe le primedonne il console di Polinelli, mentre accanto a Nizza cantava Luciano Ganci, tenore dalla voce potente, spesso ostentata con baldanza, e nella seconda compagnia Luis Chapa, piuttosto generico. 

Nel 2019 il teatro ripropone il titolo di Puccini, in uno spettacolo diretto da Niksa Bareza, direttore che non sempre apprezzo. Certo non in questa occasione. 

Lo spettacolo aveva delle scene, firmato Genuizzi e Zullo, con il velo al boccascena, che forse danneggiava l’ascolto delle voci e che nulla di nuovo o di interessante portavano alla storia. 

Sicuramente il palcoscenico e l’orchestra non avevano l’affinità sperata. 

I cantanti si muovevano con fastidioso bozzettismo e la decantata .

Liana Aleksanyan eseguiva la parte della protagonista come poteva: non credibile scenicamente, con qualche difficoltà di pronuncia, forse anche di comprensione di quello che cantava e con gli acuti non sempre privi di cedimenti. 

Sinceramente non stupisce che lo yankee abbia abbandonato un simile fiorellino. 

Caso mai ti domandi come mai lo abbia scelto. 

Per carità, non è becero maschilismo: il problema è la credibilità. 

Se l’aspetto non ti favorisce ma canti emozionando, alla fine della serata tutti penseranno che sei stata una Butterfly suggestiva. 

Non serve un portento: la signora Yamazaki aveva l’età di almeno tre Cio-cio-san, ma sapeva evocare la fanciulla che era stata in lei e l’applaudimmo convinti, pur senza gridare al fenomeno. 

In questo caso, invece, una direzione tonante e distratta, una regia qualsiasi, un allestimento imbalsamato, sotto un velario, come si fa per gli animali conservati nelle sezioni di tassidermia dei musei, avevano strappato le ali di ‘Madama Butterfly’, che dopo qualche tentativo di volo si schiantò, come avrebbe fatto una gallina convinta di essere un albatros. 

Alla fine di questo viaggio pucciniano, mi vengono in mente alcune considerazioni.

Con il passare degli anni ho finalmente capito cosa lega me, mastodontico e pelato, alla storia di una fanciulla ingenua e tradita nelle sue aspettative.

Interiorizzare quella musica, quei respiri , è stato un bisogno inconscio, che mi ha aiutato ad accettare le pugnalate che sarebbero arrivate copiose. 

Come tutti coloro che credono nel senso dell’esistere, mi sono incamminato in quella collina di ciliegi che separa le speranze di Cio-cio- san dalla tangibile quotidianità.

Se il viaggio si fosse interrotto davanti ai primi ostacoli, ai tradimenti, alle pugnalate, ai dopppiogiochismi, mi sarei fermato subito, ben prima della giapponesina di Belasco.

Invece, incosciamente, vedere la sua storia, di vittima senza colpa, probabilmente mi ha permesso si metabolizzare eventi e disavventure in anticipo.

Mi ha portato avanti nel viaggio, quasi una preparazione , inconscia e preventiva, a quello che avrei incontrato.

Non che lo sapessi, che me ne fossi reso conto. Ma ripensandoci è così.

Insomma, sto dicendo effettivamente che dentro di me abita anche Cio- cio-san.

Che vista la dimensione del contenitore ci sta comoda, potrebbe tranquillamente portarsi dietro diversi cambi di kimono, qualche agile mobiletto e forse anche Suzuki.

Quello che è salvifico è il regalo che da lei ho ricevuto: un mantra.

Ogni volta che subisco un colpo basso, ricevo una pugnalata, vengo calperstato, mi sono rendo conto che canticchio l’aria finale ‘Con onore muore chi non sa serbar vita con onore’.

Non per annunciare la scelta di un suicidio.

Per andare avanti, allontanando i detrattori, spingendoli sul palcoscenico di una tragedia musicale . 

Per ridurli ad ombre, perché la loro presenza si allontani, perché su di loro si chiuda il sipario, non della vita ma degli affetti.

Così le noti finali, drammatiche e strazianti di ‘Madama Butterfly’, non celebrano la morte della fanciulla, ma la sua immortalità e nel fare questo rinnovano il piacere di affrontare la scalata di quella collina di ciliegi che è la curiosità verso le cose della vita.

di Gianluca Macovez

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