LADY MACBETH
Ognuno di noi ha delle opere favorite e soprattutto dei ruoli che gli piace di più ascoltare.
Nel mio caso uno più suggestivi, intriganti, intensi e rivelatori della completezza di un’interprete è Lady Macbeth.
Ne ho ascoltate diverse ed ogni volta era l’aspettativa di un’emozione, la speranza di uno stupore, la voglia di immedesimarsi, il piacere di quel brivido in attesa di una magia.
Diciamo subito che sono stato molto fortunato.
Il primo dei miei Macbeth, era il 1973, poteva contare sulla regia di Fassini, le scene agili e funzionali di Pizzi, la direzione di Giananadrea Gavazzeni.
Sul palcoscenico uno straordinario Mario Zanasi, con la sua voce possente ed una capacità di immedesimazione del personaggio indiscutibile.
Paura, cinismo, debolezza, incongruenza si mescolavano e ne usciva un uomo subdolo, una serpe, che si aggirava sul palcoscenico con sapienti movenze.
Accanto a lui Franco Ghitti, Luigi Roni, Ruggero Bondino e soprattutto Angeles Gulin.
Una Lady dal carattere fortissimo, una vocalità di potenza strabordante, con acuti lanciati come sciabolate, che si muoveva come una tigre, imperiosa e determinata.
Una chioma rossa aggiungeva al ruolo un tocco ulteriore di ferocia sanguinaria.
Anche nella scena del sonnambulismo il carattere rimaneva ben determinato: una donna sconvolta ma non piegata, che manteneva intatta la sua dignità, per quanto malefica, nel momento del disorientamento.
Un personaggio interessante, per nulla scontato.
Lady Macbeth negli anni Ottanta, per tutti, aveva un nome: Ghena Dimitrova.
L’ho ascolatata a Verona ed a Trieste, dove in una settimana vidi l’opera tre volte.
Un prodigio. Fosse nell’anfiteatro o nel chiuso del teatro, la sua voce travolgeva tutto e tutti.
Per lei non era un problema riuscire a coprire l’orchestra, al punto che il proposito che si era imposta nelle recite triestine era di riuscire a governare meglio il volume del canto, in previsione della ripresa scaligera del titolo.
L’ impegno era stato evidente, per chi come me aveva seguito più repliche dello spettacolo, nel quale si alternavano nel ruolo del titolo due fuoriclasse come Piero Cappuccilli e Juan Pons, ma in ogni caso anche all’ultima replica, dopo smussature e contenimenti, il suo era uno straordinario oceano di suoni che ti travolgeva .
In effetti lo strumento così possente le consentì di rendere la sua versione del personaggio: una donna sprezzante, risoluta, priva di scrupoli, pronta a dirigere il marito senza nessuna remora.
Peraltro una simile lettura permise ai baritoni che la affiancavano di far emergere la componente umana del personaggio: un uomo fondamentalmente debole, pieno di sé ma agevolmente manipolabile secondo Bruson; Cappuccilli lesse la figura come quella di una persona strangolata dagli eventi, incapace di sottrarsi al fascino del potere ed alle insistenze della moglie; una specie di vittima dolente per Pons, che riuscì a stupirmi e commuovermi nel racconto nel suo disagio, della lucida incapacità a sottrarsi ad una parte che sapeva non essere la sua, quasi fosse in una tragedia di Euripide.
Tutti cantanti di enormi capacità, vocali ed interpretative, che capirono lo strumento eccezionale del soprano e seppero impiegarlo per esaltare le sfaccettature del loro ruolo.
Il sonnambulismo della Dimitrova era strano, nel senso che in scena appariva una donna sperduta, ma il cui tormento non era reso da espresioni del volto o del corpo.
Il suo era un percorso semplice: attraversava il palcoscenico, lentamente, con una candela in mano. Ancora una volta si affidava alla voce, che oltre a noi, questa volta, tramortiva anche lei.
Era diventata una donna fragile imprigionata da una volontà ferrea, che prima aveva preso il possesso di lei, poi la aveva lasciata andare alla deriva. Ogni nota un’onda, che l’allontanava dalla vita, fino alla nota finale, pura e lunghissima, che la accompagna alla deriva.
Si alternava con la Dimitrova, Adelaide Negri.
Ovviamente, si dirà, una battaglia persa.
Assolutamente no: il soprano argentino seppe dare una sua versione, senza venire a compromesso con nessuna delle note scritte, ma ovviamente non rivaleggiando con la collega sul volume vocale.
Ne uscì una figura credibile, umana. Se la Lady della Dimitrova era una donna predestinata, che non aveva scelto, lo diceva la sua voce, quella della Negri era più cattiva: aveva scelto di far fare del male. Era il vero genio creatore della vicenda, spietata, compiaciuta, contenta e trionfante nella prima parte. Persa, irriconoscibile, gravata dall’angoscia, arresa nel sonnambulismo. Lasciava il palcoscenico non spinta da un’onda, ma la sua nota, di infinita suggestione, sembrava spegnere la fiamma della sua vita.
Nel 2013 ascoltai Dimitra Theodossiou per due volte nel ruolo di cui parliamo.
Anche qui una grande interpretazione, di un soprano che non aveva più l’opulenza vocale di qualche anno prima, ma che riusci a dare vita ad un personaggio intenso, in questo caso veramente da tragedia greca, con una mimica alle volte marcata, proprio perché andava a dimenticare la dimensione individuale per vestire quella simbolica del Male, in uno spettacolo bellissimo di Hennig Brockhaus, caratterizzato da un senso onirico della narrazione, alla ricerca di una dimensione fuori dal tempo e dallo spazio
Alla fine, tutti in quello spettacolo erano bravi, tutti credibili, ma ritornavi a casa ricordando solo lei, le note taglienti, le espressioni fra follia e compiacimento, il modo di muoversi che tradiva il peso della vicenda, la predestinazione che la schiacciava.
Vorrei parlare ancora di tre Lady.
Una l’ho vista in televisione. Era l’inaugurazione della Scala, protagonista Cappuccilli.
Al suo fianco Shirley Verrett. Una signora del male. Elegante, suadente, conquista Macbeth con la sua bellezza sensuale, con lo sguardo fiero, con il sorriso che riporta a chissà quali emozioni.
Una regina nera che incatena il futuro re al suo gioco, con una voce magnetica, intensa, capace di scavare le arie, a ritrovare il profumo dell’inferno.
Un’altra l’ho ascoltata. Una registrazione di Carmen Lavani, incisa dopo aver varcato la soglia dei settant’anni. Una visione interessantissima, di un sonnambulismo lucido, intenso, con una voce che il tempo ha sporcato senza ferirla e che la cantante riesce a caricare di un prezioso vissuto, una narrazione epica di una affermazione e di una caduta. Quasi in continuità con la visione della Theodossiou, solo che qui non si vive della tragedia greca, ma del suo racconto. Una sorta di drammatica narrazione della Lady che nel suo sonno ripercorre la propria vita e con il suono della voce non descrive episodi ma sensazioni, assolute, stratosferiche.
Infine la terza è una Lady Macbeth vista a Trieste nel 2005. Tatiana Serjan, soprano celebrato ed apprezzato da Riccardo Muti, che negli anni successivi ascoltai in Don Giovanni e Norma.
Con poco interesse nel primo titolo e riconoscendole il merito di qualche emozione nel secondo.
Quindi non c’è dubbio che sia io a non apprezzare la voce della cantante che vanta una carriera di tutto rispetto.
Pazienza, penso che il soprano russo sopravviverà alla notizia di non rientrare fra le mie preferite.
Lo spettacolo aveva grandi pretese: proveniva da Ravenna, regia di Van Hoecke, direzione di Boncompagni, scene astratte, costumi che rimandavano a situazioni fetish ed incontri a colpi di frustino.
C’era un Macbeth non di grande fascino, Mark Rucker, ma che comunque riusciva a portare al termine lo spettacolo con dignità.
C’era il tenebroso Giorgio Surjan, artista sempre affidabile, cantavano Ceriani e Borin.
Ma soprattutto c’era la Serjan.
Che riuscì a non emozionarmi mai.
Fossi stato io Macbeth, per quanto la signora avesse un fisico importante ed una innegabile avvenenza, l’avrei lasciata cadere dalla torre dl castello. In quel modo, forse, un suono vero si sarebbe ascoltato, una nota drammatica avrebbe riempito la sala. Invece nulla.
Una donna avvenente che si canta addosso tutte le note previste, prosciugandole di ogni spessore narrativo.
Uccidere una partitura rispettandola è un’impresa che non sarebbe stata facile neanche per le streghe. Insomma, per me, quella sera a languire non era la luce, ma la passione.
G.M.
Angeles Gulin, soprano
La cantante, figlia di un direttore d’orchestra e madre di un soprano, nacque nel 1937 in Spagna, da dove si trasferì a Montevideo.
Nella capitale dell’ Uruguay frequentò il Conservatorio e debuttò, nel 1963, come Regina della Notte.
Il successo fu clamoroso, anche perché era stata convocata all’ultimo momento, grazie alla bellezza del timbro, una estensione ampia ed una voce potentissima.
Dall’America Latina, dopo il matrimonio con il baritono Antonio Blancas, rientra in Europa, dove si esibisce soprattutto in Spagna, Germania ed Italia.
Nel 1968 vince il Concorso di voci verdiane a Busseto e la sua carriera prende una svolta grazie a ruoli più drammatici, con una predilezione per Verdi: interpretò Oberto , Nabucco , I due Foscari , Giovanna d'Arco , Attila , Alzira , Il corsaro , Luisa Miller , Macbeth, Stiffelio , Aroldo , I vespri siciliani , Simon Boccanegra , Un ballo in maschera , La forza del destino e Aida.
Grande riscontro ebbero anche le sue prove in Norma, sulla quale ci furono anche numerose polemiche, La Gioconda, Francesca da Rimini, La Wally, Manon Lescaut, Turandot, Andrea Chenier, Beatrice di Tenda e La Donna del Lago.
Un repertorio vasto, che spaziava dal belcanto belliniano al verismo di Giordano, portato in scena con successo grazie ad uno strumento vocale dalla solida tecnica, di grande volume, ma anche capace di notevoli agilità.
Scenicamente sapeva muoversi con grande perizia e personalità.
La sua carriera si interruppe improvvisamente: sofferente da tempo di problemi renali, venne colpita da ictus nel 1987.
Si parlò del tentativo di rientro in scena negli anni successivi, ma la possibilità non si concretizzò ed il Mefistofele di Madrid rimase l’ultima sua interpretazione.
Il soprano morì a Madrid nel 2002
Poche le testimonianze discografiche, fra cui uno Stiffelio con Grilli, Estes e la Cortez, diretti da Pesko, del 1972.
Ascolti Macbeth - Angeles Gulin Zanasi
Alcuni brani della recita triestina del 18 aprile 1973.
Il cast, diretto dal grandissimo Gianandrea Gavazzeni, era dominato da un eccezionale Mario Zanasi ed una intensa Angeles Gulin
‘ Nel dì della vittoria’
‘Una macchia è qui tuttora’
Scena del brindisi: ‘ Si colmi il calice’
Infine il duetto Zanasi-Gulin: ‘Fatal mia donna! un murmure’
Mario Zanasi, baritono
Mario Zanasi è stato un importante baritono italiano.
Dopo aver frequentato la scuola di perfezionamento della Scala, esordì, nel 1953, ventiseienne al Comunale di Firenze come Monterone in Rigoletto.
Cantò moltissimo in Italia e raccolse successi importanti anche nei principali teatri internazionali, da Vienna a Lisbona, da San Francisco a Tokyo.
Nel 1958 fu protagonista Traviata, al fianco di Maria Callas, sia a Londra che al Metropolitan di New York, dove ritornò per molti altri spettacoli, come Lucia di Lammermoor, Madama Butterfly, La Boheme, Cavalleria Rusticana, ma anche Aida e Tosca.
La Scala lo accolse in molti spettacoli, dall’ottobre1957, quando interpretò il ruolo di Gesù nella Resurrezione di Cristo di Perosi, fino all’inaugurazione della stagione 1974-75 quando cantò la parte di Scarpia nella celebre Tosca con Bumbry e Domingo.
La sua voce aveva un timbro chiaro, ma questo non gli impedì di affrontare in modo autorevole anche molti ruoli drammatici , fra i quali si distinse quale Renato di Un Ballo in Maschera, Macbeth, Iago di Otello, grazie anche a delle straordinarie capacità interpretative.
Quando lasciò le scene, si ritirò a vita riservatissima, fino alla morte che avvenne nel 2000.
Sono poche le incisioni in studio: i Pagliacci con Corelli, Gobbi ed Amara, diretti da von Matacic e Giulietta e Romeo con Angelo Lo Forese.
Ricchissima invece la raccolta di registrazioni dal vivo, che testimonia il suo enorme repertorio: fra gli altri La Traviata con Callas e Valletti a Londra nel 1958, quella con la Caballé nel 1965, con la Scotto nek 1970 e quella con la Sills nel 1970; Lucia di Lammermoor con Roberta Peters al Metropolitan e la Sutherland a Chicago; Cavalleria rusticana, con Zinka Milanov, diretta da Mitropoulos al Metropolitan ; Il Trovatore con Corelli e la Ligabue e quello con Tucker e Caballé; Un Ballo in Maschera con Gencer e Bergonzi e con Pavarotti ed Orlandi Malaspina; Madama Butterfly con la Olivero; I Puritani con Sutherland e Raimondi, a Palermo nel 1961; Maria di Rohan con la Zeani; La Favorita cantata al San Carlo con la Simionato; I Masnadieri diretti da Gavazzeni; Beatrice di Tenda con la Gencer; Macbeth con Gwynwth Jones; Aida con Leontyne Price e Casellato Lamberti; Madame Sans Gene diretta da Gavazzeni; Ernani con Del Monaco e Orlandi Malaspina; I Due Foscari con Luisa Maragliano; Luisa Miller con la Maragliano; Don Carlo con Prevedi e Raimondi; Rigoletto con la Scotto; Simon Boccanegra con Raimondi, la Chiara e Martinucci; Forza del Destino con Labò; la Gioconda con Grilli e la Gencer; Giovanna d’Arco con Labò e Ricciarelli; Nabucco con la Gulin.
Esistono anche alcune interessanti testimonianze video che mostrano in maniera inattaccabile il suo talento scenico.
LA LADY NERA
Shirley Verrett dal vivo non l’ho mai ascoltata.
Ma quando le dirette dalla Scala erano eventi importanti, di costume, lei fu protagonista di memorabili spettacoli che naturalmente seguivo con avidità.
Ricordo in particolare tre occasioni televisive che misero in evidenza sfaccettature affascinanti di un soprano che aveva saputo unire al belcanto la battaglia per i diritti civili, con una onestà interiore e professionale encomiabili.
Travolse il pubblico, nel 1975, come Lady di un ‘Macbeth’ che aveva in Piero Cappuccilli l’altro esplosivo interprete.
Entrava in scena regale, magnificamente servita dagli abiti di Luciano Damiani e dalla regia di Strelher, che aveva saputo concentrare il lavoro sugli interpreti rinunciando il più possibile agli elementi di scena.
Lanciava note accuminate come pugnali, alter ego spietato di un Macbeth soggiogato dalla bellezza e dalla sensualità di una regina nera, fuori e dentro.
Sapeva benissimo che anche il colore della sua pelle era una delle carte che la regia aveva utilizzato, ma da artista vera non ebbe problemi ad accettare quella visione e da donna saggia che era scesa in piazza in difesa dei diritti dei neri d’America, capì che in quel modo proclamava la sua superiorità, abbatteva ogni forma di pregiudizio, dimostrava la grandezza di chi vale, che conta per quello che è e sa fare, non per come appare, mai prigioniera del colore della pelle.
Sorridente nei momenti della strage, compiaciuta dei trionfi, soggiogava il pubblico che riusciva, finalmente, a girare pagina a ventitre anni dalla versione rivoluzionaria che del personaggio offrì Maria Callas.
Non abbatteva quell’icona, ma, coraggiosamente, da quel modello partiva per andare oltre.
Il binomio con Cappuccilli era inattaccabile: due artisti dalla forte personalità, tecnicamente sapienti, con delle voci riconoscibili e potenti, che riuscivano a compenetrarsi, a celebrare un riuscito matrimonio che durava il tempo dello spettacolo e che non poteva che stregare il pubblico, con il quale la Verrett era sempre generosissima.
Quello in sala, ma anche quello che assisteva al prodigio di una diretta televisiva a colori che fece storia.
La stessa magia non si concretizzò per Carmen, nel 1984.
Personalmente trovai la sua versione della zingara affascinante, vocalmente riuscita, scenicamente suadente, nonostante la signora non fosse più una bimba.
L’allestimento, però, era incentrato sul divo Placido Domingo.
La vicenda era stata trasformata in un flashback dal regista Piero Faggioni che all’apertura del sipario mostrò Don Jose che in prigione riviveva la sua vita.
Di fatto il tenore risultava il dominatore assoluto e la Verrett venne contestata per un certo appannamento del mezzo vocale.
Fu un momento duro per il soprano, che con il coraggio di sempre, durante l’intervallo , rispose ad un giornalista che le chiedeva spiegazioni, illustrando dettagliatamente che stava male da molti giorni, che era raffreddata, che aveva un catarro che le bloccava il respiro, ma che non si sarebbe mai permessa di mettere in discussione una inaugurazione della Scala, ed alla fine del discorso si produsse in un colpo di tosse che avrebbe spaventato un grizzly e che convinse tutti dell’esistenza di un cospicuo muco.
Meglio correre un rischio, che maltrattare il teatro e gli appassionati, proprio quelli che alla fine, come spesso succede, l’avevano lasciata sola: una direzione che non aveva annunciato il suo malessere e che aveva permesso che lo spettacolo non fosse cucito addosso alla sensualità di una voce ancora valida ma sull’aitante tenore emergente corteggiato dalla discografia ; un pubblico che sembrava aver dimenticato chi fosse e quanto valesse l’intrepida Verrett, che con quello spettacolo decise che era arrivato il momento di chiudere con quel teatro.
Un ultimo ricordo televisivo non è legato alla Scala: un concerto di musiche di Gershwin , nella piazzetta di Positano, nel 1987, andato in onda una domenica pomeriggio.
Il soprano, che da qualche anno aveva superato il mezzo secolo, incantò i presenti cantando un repertorio dedicato al compositore americano.
Quasi una ventina di brani, eseguiti in modo assolutamente personale e sicuro, che misero in luce anche al grande pubblico la magnifica scrittura musicale del compositore americano, da sempre poco conosciuto in Italia.
La Verrett, conscia del suo fascino che il tempo non seppe mai appannare , proponeva un concerto ben diverso da quelli che abitualmente ascoltavamo nei teatri: in mezzo all’orchestra, cantava con un microfono da musica leggera, come il musical richiedeva, con una pettinatura afro che contrastava con le barocche pettinature delle altre primedonne, un abito ampio e clamorosamente fucsia, interpretando con piglio da attrice di prosa ogni canzone.
Sorrideva a chi era sceso in piazza per lei, soddisfatta di quella operazione così poco commerciale ed ancor meno popolare.
In qualche modo abbatteva quel mondo stantio che non l’aveva apprezzata.
Perché i cantanti dipendono dal successo degli spettacoli, ma i grandi artisti vivono in una dimensione metafisica, che va al di là del singolo momento, di un acuto e della purezza del suono.
Quando entrano in scena nutrono di emozione il loro pubblico, quello che li apprezza per ciò che sono, non per ciò che fanno; quello che sa cogliere l’emozione di uno sguardo, di una nota sporcata per raccontare una storia, di un suono dilatato per descrivere il disorientamento che il personaggio vive.
Quel pubblico che si fida del grande interprete; che ascolta quelle arie forse mai sentite prima, magari interdetto dalla scelta di rinunciare a certi pezzi di repertorio che avrebbero fatto esplodere l’applauso; che sa che quel viaggio serve a diventare più ricchi o comunque è un momento di condivisione.
L’Artista vero non tradisce: sa quando ritirarsi, sa quando apparire, sa come e se sparire definitivamente, senza esporre mai al ludibrio il cadavere del cantante che è stato.
Alla fine del concerto la Verrett propose Summertime, in una versione di una intensità raramente sentita, giocata sull’eleganza delle note, sulla lunghezza dei fiati, sulla poesia del racconto e sull’esplosione di un tempo d’estate, che vidi come la rivoluzionaria risposta a chi a teatro va per storcere il naso, da parte di chi ha scelto di vivere d’Arte, senza barriere e preclusioni, per insegnare a tutti che la forma massima d’arte è la libertà.
Ascolti di Shirley Verrett nel Macbeth
Shirley Verrett in 'Vieni t'affretta' dal Macbeth alla Scala nel 1975
La grande aria del sonnambulismo, sempre dalla edizione scaligera del 1975
‘Nel di della vittoria... Or, tutti, sorgete..’ cantato nel 1984 all’Operà di Parigi da Shirley Verret, orchestra diretta da Georges Prêtre, sono passati quasi dieci anni dallo spettacolo milanese, ma la Verrett rimane coinvolgente e convincente come poche altre.
E infine come non ricordare il grande baritono Piero Cappuccilli interprete con la Verrett dello storico Macbeth alla Scala. La sua bella voce di baritono verdiano, ricca di colori e di accenti ancora riecheggia nella nostra memoria, le emozioni vive nei nostri cuori.
di Gianluca Macovez