I resoconti del baritono e critico musicale Marcello Lippi delle prime di Turandot, La Fanciulla del West, La Bohème e Tosca al 65° Festival Puccini di Torre del Lago. Come vi abbiamo annunciato ci fa piacere salvare contenuti, promuovere spettacoli, raccogliere documentazione importante nelle nostre pagine. Ci sembrava doveroso ripubblicare le critiche delle prime di uno dei festival più importanti d’Europa. Adm
La fanciulla del West e Turandot al 65° Festival Pucciniano di Torre del lago Puccini - 12 e 13 luglio 2019, di Marcello Lippi.
Sono state due gradevolissime serate all’aperto in riva al lago di Massaciuccoli in un momento di caldo eccezionale, senza il desiderato fresco lacustre, ma con una temperatura accettabile e la musica di Puccini a riempirti il cuore e la mente, mentre alcune evidenze si sono palesate. In quale ordine proporle? Direi che la prima potrebbe essere, con buona pace di direttori e registi, che l’opera ha bisogno innanzitutto di cantanti validi, perché nonostante da anni si tenti di affermare la supremazia di altre figure professionali, l’opera è un genere nato per il canto e non ha senso, come il 65° Festival Pucciniano ben ci dimostra, mettere a bilancio costi stratosferici di scenografia e costumi se non si hanno cantanti capaci di condurre a termine la recita in modo soddisfacente. Sabato 13 luglio abbiamo assistito ad una Turandot reinventata da Giandomenico Vaccari, con l’umiltà della persona intelligente che è, su una scenografia già esistente nei magazzini del Pucciniano. Il "budget di commessa" della produzione avrà registrato suppongo un bel risparmio e possiamo ritenere che parte di questo risparmio sia stato reinvestito per avere un cast da grande serata. Ebbene, credo sia stata una delle recite più convincenti cui ho assistito: pubblico entusiasta, ovazioni e bis.
Festival Puccini 2019 - Turandot - Valeria Sepe, Liù - Amadi Lagha, Calaf
La seconda evidenza che si è palesata è che, in generale, per quanto ci si possa e ci si debba affidare in gran parte alle professionalità in campo, l’opera, essendo il prodotto di un lavoro di team che necessitano affiatamento, ha bisogno di adeguate prove per poter raggiungere il livello qualitativo che possa giustificare e rendere imprescindibili gli investimenti degli stakeholder pubblici o privati ed avere una ricaduta culturale e sociale sul territorio. Per come è organizzato, e non potrebbe essere altrimenti, il Pucciniano mette in cantiere più opere contemporaneamente, ma risparmia molto sui tempi produttivi, ottimizzando sugli artisti che spesso sono impegnati in più produzioni (le cui prove purtroppo spesso coincidono), potendo contare su una squadra tecnico-organizzativa assolutamente efficace e su solisti e compagini musicali di buon livello. Una delle Mission del Festival Pucciniano, forse la principale, è la conservazione e promozione dei tesori musicali del compositore, ma proprio per questo la sua proposta non può mai essere stanca, pur nella forzata ripetitività dei cartelloni. Si è respirata invece un’aria strana nei vialetti intorno al teatro, come di low profile, come di perdita di entusiasmo e di rischio di routine nella gestione dell’evento. Forse perché "La fanciulla del west" non riesce mai a convincere pienamente il pubblico (quella del 12 luglio non ha fatto eccezione) e questo non accorre troppo numeroso, rimane un po’ perplesso e spesso abbandona il campo come l’intera fila davanti a me, che alla fine del primo atto, dicendo: "Pazienza, ci si rifà domani con Turandot", ha lasciato il teatro.
La fanciulla del west -foto umicini-
Non è stata la scelta migliore debuttare con "Fanciulla", ma ci saranno state ragioni che non conosco e che rispetto. L’apertura di un Festival è meglio infatti sia sempre con il "botto", perché il Festival, che ha un tempo di attuazione limitato e compresso, vive di entusiasmo e di adrenalina, necessaria a vincere la stanchezza fisica dovuta all’overtiming lavorativo. Doveva essere dunque una "Fanciulla" "Sturm und Drang", ma è stata invece solo una corretta esecuzione, non trascinante. Su tutto è pesata come un macigno la prova di Maria Guleghina, interprete meravigliosa dei nostri tempi, cantante al di sopra di ogni commento, specialmente dei miei, ma che ha palesato gravi problemi di preparazione, come se le mancassero prove (debuttava) e non avesse avuto il tempo di memorizzare le note e di fare quell’operazione così necessaria ai cantanti che è la "messa in gola" di un ruolo, cioè l’abitudine a cantarlo, trovando quegli automatismi e quegli effetti che possono permettere di realizzare una grande performance. La voce della grande artista sembrava invece non trovare la strada di casa e, sulla musica di un autore così amante del canto spiegato e del legato appassionato, eseguiva le frasi costringendo l’apparato vocale a posizioni diverse di canto all’interno della stessa frase, per cui alcune note erano sonore, altre quasi scomparivano in un contesto orchestrale generoso, ma non eccessivo; la stanchezza dovuta a questa dinamica interna faceva sì che le note acute fossero sempre un po’ forzate, mai veramente convincenti, anche se sempre sicure. Per l’ascoltatore era dunque impossibile godere della melodia pucciniana che, danneggiata dalla sparizione costante di alcune note, eccessivamente ridotte di volume, poco appoggiate o insicure, risultava frammentaria e si perdeva. Solo a tratti la Guleghina prendeva convinzione ed emetteva zampate da leonessa, note meravigliosamente belle ed accenni di fraseggio più legato: del resto sul palcoscenico c’era una star di grande livello e grande esperienza che aspettiamo di ascoltare in ruoli a lei più noti e più sotto controllo. Anche scenicamente ha fatto rimpiangere alcune grandi interpreti che nel passato hanno calcato lo stesso palcoscenico. Mi rendo conto che una ragazza che viva da unica rappresentante del gentil sesso in un villaggio di uomini soli finisca da un lato con l’essere un po’ mascolina, dall’altro con il rifuggire ogni sdolcinatura romantica, ma per tutta la sera ho desiderato invano che Maria si sciogliesse un poco, lasciando sgorgare la propria femminilità, forse in questo caso mortificata da indicazioni registiche troppo restrittive oppure più probabilmente dalla mancanza di un poco di prove in più. Accanto a lei un "iradiddio" di tenore dal timbro brunito, quasi baritonale, che però in zona acuta, dove era lecito aspettarsi qualche defaillance dovuta alla grande generosità nei centri e nei bassi, è esploso in acuti facilissimi, brillanti e potentissimi, tali da entusiasmare un pubblico non esattamente propenso alle manifestazioni di consenso. Per Alejandro Roy potrei arrischiare paragoni certamente troppo impegnativi: da molto tempo non sentivo un colore talmente virile e potente in una voce tenorile, un fraseggio così facile e accurato; si comprendeva ogni parola e si leggeva benissimo ogni sentimento del personaggio. Luca Grassi ha una vocalità elegante e raffinata, per cui ero curioso di vederlo alle prese con un ruolo di baritono spiccatamente vilain. La prova è stata ampiamente superata; ha disegnato un personaggio consono alla sua natura vocale ed attoriale, ma ugualmente efficace: più nobile del consueto, più "educato", ma tagliente nel fraseggio e sicuro in ogni zona della tessitura. Sontuoso il Nick di Fabio Serani, un artista che non delude mai e che ha impreziosito il già ottimo cast. E’ noto che "Fanciulla del west" sia un’opera scritta non rispettando i canoni economici che normalmente condizionano e determinano le scelte del team di direzione di un teatro: prevede un vero stuolo di comprimari che, se possono anche non essere tutti fenomenali vocalmente, devono però essere quadratissimi con il solfeggio, pena disastri assoluti sul palcoscenico. Al Festival abbiamo assistito ad una buona prova da parte di un gruppo agguerrito di specialisti, alcuni del territorio, impegnati anche in altre produzioni con un pacchetto di scritture che immagino abbia permesso un soddisfacente contenimento dei costi. Il quadro complessivo è stato discreto, senza evidenti sbavature ritmiche, nonostante la furiosa complessità dello spezzettamento del fraseggio tra più personaggi. Imprecisioni ce ne sono state, ma nell’ambito di una buona normalità in un’opera così impegnativa. Fra le voci, tutte interessanti, merita una citazione particolare Andrea De Campo e non per motivi artistici: ci ha fatto ricordare com’era il teatro dei tempi andati; appena ha terminato la paginetta che lo ha impegnato nel "Non reggo più, sono malato", (bene eseguita, per carità) è partito da un settore della platea un applauso fuori luogo che ha suscitato l’ilarità del pubblico. Anche il clacqueur fa parte del mondo del teatro, ma bisogna averne il tempismo e cogliere la situazione: è un’arte, a suo modo. Alberto Petricca, Andrea del Conte, Francesco Lombardi, gli ottimi Marco Voleri e Tiziano Barontini, Michele Perrella, Daniele Caputo, Massimo Schillaci e Matteo Bagni sono stati i componenti di questa agguerrita équipe. Una menzione a parte per Annunziata Vestri e Alessandro Ceccarini, alle prese con la riuscitissima coppia di indiani Billy e Wokle. Mancano a questo lungo elenco le ultime due voci gravi, il Sonora di Luca Bruno, efficace e puntuale nella sua interpretazione, con un piglio vocale interessante, e Ivan Marino, che, grazie alla sua fisicità imponente ha creato un Ashby molto credibile.
Festival Puccini 2019- Minnie Maria Guleghina e Dick Johnson Alejandro Roy - foto La Bottega dell’Immagine per Festival Puccini
Il maestro Renzo Giacchieri ha fatto il regista davvero, come andrebbe sempre fatto, e scommetto che, se avesse avuto più tempo a disposizione, ci avrebbe regalato non solo la buona qualità, ma l’eccellenza. La scena era tradizionale, come deve essere, e gli artisti vi si muovevano con naturalezza, senza forzature: la "Polka" è stata riadattata a formare la capanna di Minnie, mentre il bosco innevato ha formato, come dovuto, l’ambience dell’ultimo atto. Si è potuta vedere la mano di Giacchieri soprattutto nel fluire del movimento, nello scorrere del tempo nella storia e al di sopra della storia, con le piccole vite segnate dalla disperazione e dalla solitudine, raccontate senza indulgere al macchiettismo, ma con commozione e partecipazione. Di Minnie si è detto, del coro si può dire che avrebbe avuto bisogno di un po’ più di tempo di prova per poter raccontare una normalità eccezionale quale Giacchieri avrebbe sicuramente voluto. I cantanti del coro si muovevano infatti un po’ eccessivamente, come con paura della staticità, specialmente quando, all’inizio dell’opera, agivano sul secondo livello scenico. L’effetto è comunque stato quello di una vitalità vicina al vero, vitalità che non abbiamo riscontrato invece nel settore musicale. L’orchestra ORT ha un suono elegante e curato ed una professionalità invidiabile ed il maestro Alberto Veronesi non è certamente un neofita in Puccini, ma l’impressione è stata di un’incertezza di fondo, come se ci si fosse detti "teniamo un tempo più lento in modo da tenere sotto controllo meglio la macchina". Un poco di dinamismo in più non avrebbe guastato, specialmente nelle scene che lo permettevano. Per il resto, ottimi colori orchestrali (splendida l’entrata di Minnie), con un eccessivo compiacimento verso i pianissimi vocali, che il teatro all’aperto non asseconda, ed una sufficiente fusione con il palcoscenico. Credo occorra un miglioramento fonico degli "esterni", perché in entrambe le opere si è fatto fatica a cogliere interventi musicali importanti avvenuti fuori scena.
Turandot- Festival Puccini 2019 - Amadi Lagha Calaf
La "Turandot" andata in scena in versione Puccini-Alfano il giorno 13 è stata davvero molto buona come qualità del cast, come bellezza dello spettacolo, come regia e come direzione d’orchestra. Non mi sono soffermato a lungo nel mio racconto di "Fanciulla del west" a parlare del Coro del festival Puccini diretto da Roberto Ardigò perché sapevo che avrei dovuto farlo ora, per la prova maiuscola fornita in Turandot. Fraseggio eccellente, colori studiatissimi e bellissimi, specialmente negli effetti di piano improvvisi, vocalità generose e ben governate, una partecipazione scenica molto professionale e partecipe. Devo fare sinceri complimenti ai direttori di coro ed orchestra per il lavoro svolto (e so in quanto poco tempo) al fine del conseguimento di una Bellezza che ancora oggi, mentre scrivo, vive in me e non ancora come ricordo.Bellissime le scene di Ezio Frigerio che ben conosciamo per aver visto già molte volte, incombenti, ma con una capacità di movimento interno che fa scomparire l’impressione della scena fissa: molto belli e riusciti i costumi "storici" di Franca Squarciapino.Amadi Lagha si è impadronito dei favori del pubblico subito, grazie al suo timbro squillante ed alla vocalità sicura; nella zona acuta della tessitura, con i suoni ottimamente proiettati in avanti senza forzature, giocava con gli acuti, provando piacere e facendolo provare al pubblico. Calaf è personaggio crudele che persegue la propria follia amatoria ed il proprio delirio di onnipotenza a costo della morte di tante persone, Liù compresa, e ha il coraggio e i nervi di amoreggiare con Turandot poco dopo la morte della stessa Liù. Lagha ne ammorbidisce i toni, si sforza di renderlo più "umano", in linea con l’impronta registica, pur cosciente di essere all’interno di una fiaba psicologica dalle forti tinte psicanalitiche. Egli vince e non solo per il tripudio scatenato da "Nessun dorma" (bissato), ma perché, in grazia dell’emissione sicura, fa sembrare tutto facile e naturale, sia vocalmente che scenicamente.
1 / 1 - Turandot Festival Puccini 2019 - Valeria Sepe, Liù - Amadi Lagha, Calaf
Liù non ha il peso musicale di Calaf, lo sappiamo, anche se ha delle belle arie e se la composizione di Puccini si è interrotta proprio dopo la sua morte sulla scena, fatto che le ha dato un rilievo che forse il Maestro non aveva previsto. Liù non ha nemmeno un’enorme presenza sulla scena, è come un gioiello che si mostra raramente ma deve colpire e convincere subito. Valeria Sepe domina il personaggio come se Puccini l’avesse scritto per lei e, grazie al suo incredibile perfezionismo, crea un miracolo che ogni volta si arricchisce di una nuova gemma. Il filato su "Sorriso" nel primo atto ha subito incantato ed affascinato. La padronanza vocale, i colori, la bellezza sulla scena, la serietà nella professione, ne fanno una delle migliori Liù attualmente in carriera e lo ha dimostrato regalandoci un’indimenticabile emozione su "Tanto amore segreto e inconfessato", dove la morbidezza della voce, il gioco di risonanze frontali, l’elasticità del viso ed il controllo del respiro le hanno permesso suoni delicatissimi e coinvolgenti. Splendida!Amarilli Nizza ha completato la triade dei protagonisti degnamente, senza che fosse percepibile l’ansia del debutto assoluto del ruolo. Grande professionista anche lei, si è calata con generosità nelle ossessioni sessuali della principessa, regalandoci una sonorità potente, vibrante e crudele nel secondo atto per poi sciogliersi nel finale quando Turandot apre le porte all’amore. Bella come deve essere la principessa, Nizza, complice una direzione d’orchestra piena di passione, ha dato molti colori alla sua interpretazione, creando le basi per futuri arricchimenti del personaggio. Potente l’emissione, eccellente la proiezione, ottimi gli acuti. Una prova convincente.Un po’ sottotono invece George Andguladze, la cui bella voce non era perfettamente a fuoco; era come se gli mancasse energia, sembrava spento, ed il personaggio non ha assunto il peso che meritava nemmeno nella straziante scena dopo la morte di Liù. Brave e quasi sempre a tempo le tre Maschere, Luca Bruno, Marco Voleri e Tiziano Barontini, già interpreti di "Fanciulla" la sera prima. Le loro voci si amalgamavano benissimo e, pur alle prese con una parte molto impegnativa, sono riusciti a rendere gradevolissimo e mosso anche l’inizio dell’atto secondo che, se non propriamente eseguito, può diventare molto noioso. Bruno ha confermato l’ottima impressione destata dal suo Sonora in Fanciulla. Bene l’Imperatore di Alberto Petricca che ha scelto di non macchiettizzare eccessivamente Altoum facendo la voce da vecchio come molti fanno, e molto bene il Mandarino di Claudio Ottino, dalla dizione perfetta. Ottima la prova del maestro Marcello Mottadelli, capace di trasmettere un universo di colori all’orchestra ed al coro, spesso in modo originale, con una cura del particolare che gli fa onore. Il gesto è chiaro e sicuro, le dinamiche sempre ben studiate, il dinamismo a scatti dell’opera pucciniana trova in lui un interprete fedele e preciso. L’unico appunto che gli si può muovere sono quegli improvvisi momenti di silenzio, come di recupero di energie, che il maestro ogni tanto si è concesso all’inizio di un nuovo episodio musicale, quasi si volesse riprendere il filo del discorso dopo uno scollamento che però non era avvenuto. Anche se evidentemente voluti, questi attimi di riflessione hanno creato l’impressione dell’errore, dell’incertezza ed hanno spezzato il discorso musicale.
Festival Puccini 2019 - Turandot
Non è un segreto che io ammiri moltissimo Giandomenico Vaccari, qui in veste di regista, per la sua intelligenza e per la sua energia creativa. Accettando di lavorare, e bene, sulle scene di Frigerio ha sicuramente reso un ottimo servizio al Festival dimostrando che non è necessario avere sempre una scenografia nuova ogni volta che si chiama un nuovo regista. Vaccari ha capito lo spazio, lo ha sentito, avvertito nell’intimo e reso funzionale ad una sua ricerca personale, che non ha seguito il filone che io avrei preferito, ma ha avuto una sua coerenza. La prima scenografia era eccessivamente incombente, come sempre, ed ha costretto gli artisti ad operare su una striscia di palcoscenico che è sembrata un po’ angusta. Lì Vaccari è riuscito a far muovere le masse corali ed i solisti senza accavallamenti, scontri ed "impallamenti", con un credibile incontro tra padre e figlio. Meno credibile, ma coerente con i dubbi e le domande che il maestro Vaccari si è posto, è stata la rinuncia alla solennità che ha comportato il fare entrare in scena l’inarrivabile principessa dalla porta principale, in mezzo alla gente, non usando il secondo livello superiore di scenografia che avrebbe potuto e forse dovuto creare l’effetto di distanza tra il popolo in miseria e la principessa. Ciò ha tolto mistero ed autorevolezza alla protagonista, ma credo fosse proprio l’intenzione del regista che, dal piano simbolico e psicanalitico, ha voluto trasportare la vicenda su un piano politico di oppressione e, poi, ribellione. Dare realtà e trattare i personaggi, di per sé irrealistici, come umani e non di fiaba, comporta dei rischi ed infatti nel terzo atto Vaccari fa consegnare il pugnale per il suicidio a Liu dalla stessa Turandot, scelta che non poteva non sembrarmi un errore registico: nella storia infatti Turandot sta facendo di tutto per sapere il nome del Principe Ignoto, unico modo di salvarsi da un matrimonio che non vuole; mi sento di poter dire che l’ultima cosa che vorrebbe è la morte di colei che, sola, conosce quel nome. Anche in questa produzione le prove non devono essere state tantissime e si sentono le idee del regista a tratti realizzarsi appieno, a tratti rimanere appena accennate, come se agisse a sprazzi di genialità senza il tempo di una costruzione più ampia. Ottimo il rapporto disegnato da Vaccari tra i due protagonisti, il lento sciogliersi delle ossessioni della principessa, il suo cedimento dopo il primo bacio, le sue incertezze, la sua voglia di fuggire, di non sottomettersi al fascino di quel sentimento che prova sempre più forte. Ottime le Maschere nei loro studiati e naturali movimenti (divertente la scena dei massaggi), dove Vaccari rinuncia alla gestualità artefatta tradizionale per dare una dimensione più umana ai tre personaggi. Coraggiosa, ma per me eccessiva, la scelta di far baciare le teste mozzate dei pretendenti alle ancelle di Turandot, citazione espressionista di Salome. Un po’ ripetitivo infine il gesto del coro che alza le mani ogni volta che canta "Gloria a te" e termina tutti gli atti con la stessa gestualità. La rivoluzione finale con il popolo che ha preso prigioniere le guardie e si prepara ad uccidere la principessa è originale e sposta ancora di più il discorso su una strada di realismo, come se Vaccari non fosse interessato a disconoscere l’umanità dei personaggi ed a viaggiare nella fiaba, con tutti i simbolismi che questo comporta. Mentre i pugnali stanno per abbattersi su Turandot lei pronuncia la parola "Amore" e tutto il mondo si trasforma, la luce diventa radiosa, i pugnali cadono e si lascia intendere che in quel paese di fiaba possa esserci un destino migliore, pur con due sovrani crudeli come i nostri due protagonisti. Molto positivo il messaggio che l’amore vince tutto, magari fosse davvero così: il teatro ha bisogno di lanciare messaggi positivi specialmente nei nostri tempi. Bello visivamente lo spettacolo, ben costruiti i rapporti tra i personaggi "umanizzati". Una buona prova del regista.Una doppia buona prova per tutto il Festival.
LA BOHEME DI PUCCINI AL FESTIVAL PUCCINIANO DI TORRE DEL LAGO 20 LUGLIO 2019
La Boheme 65° Festival Puccini 2019 Ph. Giorgio Andreuccetti
Non ho mai assistito ad una recita della notissima opera di Puccini così pasticciata musicalmente, tanto da rasentare l’offesa al maestro compositore: piena di alterazioni della struttura musicale, con punti di valore non scritti dall’autore, terzine inesistenti, note calanti, errori di testo e di solfeggio soprattutto nelle entrate di alcune frasi, scompensi dinamici, sfasature tra palcoscenico e orchestra, tempi lenti al limite della noia.Il festival Pucciniano non meritava una simile produzione dopo aver ben iniziato con Fanciulla del West e Turandot. Difficile focalizzare le responsabilità e non desidero chiamare ancora in causa il poco tempo a disposizione e le poche prove fatte: La direzione sa come è articolato ed organizzato il Festival, è pertanto sua responsabilità chiamare artisti pronti e capaci di ben riuscire in produzioni brevi ed impegnative.Premetto di non aver nulla in contrario se un direttore artistico contratta un direttore musicale di un teatro nel quale ha da poco lavorato: non sempre si tratta di "scambi" dalle finalità meramente economiche personali; può essere capitato che il direttore artistico del Pucciniano, nel suo soggiorno al teatro di Riga, alternandosi proprio con il maestro Martinš Ozolinš , direttore principale di quel teatro, nella conduzione di Madama Butterfly, ne abbia ammirato le qualità artistiche e direttoriali ed abbia pensato che il maestro fosse l’ideale per dirigere Bohème a Torre del Lago, meglio di tanti direttori italiani che avrebbe potuto chiamare. Ma durante le prove al Pucciniano, nessuno ha constatato le criticità musicali e ha ritenuto fosse necessario un intervento a vantaggio della manifestazione che ha bisogno di qualità, specialmente in un momento un po’ difficile?Io rispetto il maestro Ozolins, che ha un buon curriculum, ma da spettatore deluso della serata del 20, mi permetto di dire che non si può imporre ad un’opera tanto conosciuta ed amata una snervatura simile, con dinamiche dal ppp fino al massimo ad un mf, con l’orchestra spesso inudibile già a metà platea. Assistere a La Bohème di Puccini con le sonorità di un’opera di Domenico Freschi non è stato gradevole né interessante. I tempi, lentissimi, faticosi, hanno ucciso la vita sulla scena, dove i movimenti erano conseguentemente grevi, quando la grande forza di quest’opera è proprio quella di far scaturire la commozione dal contrasto: più vivace e gioioso è il quartetto dell’ultimo atto, più straziante è l’accordo che segue "C’è Mimì, c’è Mimì che mi segue e che sta male" di Musetta; il dolore irrompe più potente se viene a spezzare un momento di spensieratezza, che però questa volta non abbiamo avuto, a causa della lentezza estrema dei tempi scelti.Il maestro Ozolins non ha mai avuto il controllo del palcoscenico, sembrava non determinare gli stacchi ritmici, ma limitarsi a seguire i cantanti, come se non li avesse incontrati fino a quel momento. Normalmente è molto positivo quando si dice che un maestro segue i cantanti, perché significa che respira con loro, "canta" con loro; in questo caso invece li seguiva proprio di fatto: l’orchestra arrivava spesso alla chiusa di una frase quando il cantante l’aveva già chiusa un istante prima, provocando ulteriore ritardo sulla frase successiva. Il gesto del maestro era per lo più rivolto all’orchestra ed i cantanti erano in palese difficoltà, tanto da non riuscire ad andare insieme neppure in frasi semplici come "Abbasso l’autor". Sappiamo come in Puccini l’orchestra dialoghi con il palcoscenico con temi importanti, spesso fondamentali; non sentirli è stato depauperante.Se si aggiunge che sulla scena i cantanti parevano precocemente invecchiati, stanchi, grevi, condizionati certamente dai tempi lenti, ma anche da una regia che nei momenti di spensieratezza li faceva muovere come se si fosse alla casa Verdi di Milano, il quadro è dipinto, anche se a tinte non brillanti. Cosa è successo in questi dodici mesi alla regia di Alfonso Signorini, quella l’anno passato trasmessa in televisione? Il regista ha seguito personalmente le prove con il nuovo cast, dunque perché tanta lentezza, quando è evidente che un movimento rapido del corpo trasmette quell’idea di gioventù della quale si ha bisogno in questa storia? La" guerra" scherzosa del quartetto dell’ultimo atto è stata imbarazzante, con i cantanti che prendevano in mano un cuscino e non sapevano che farne, lenti, statuari, forse intenti a cercare di sentire l’orchestra nei suoi pianissimi.Belle le scenografie, ampie, coreografiche, con effetti luci soddisfacenti e curati, visivamente lo spettacolo si è presentato molto bene, nonostante la confusione alla barrière d’Enfer dove non si capisce qual è il dentro e quale il fuori e le lattivendole si fanno aprire la barriera per poi, appena finito di cantare, riattraversarla, evidentemente per tornare a casa, deluse anche loro.Splendido il coro di Voci Bianche del Festival Puccini diretto da Viviana Apicella, e mi permetto una piccola divagazione per elogiarne la magnifica prova in Turandot. Il difficilissimo coro di bimbi del Quartiere Latino è stato risolto in modo ineccepibile, complici i tempi lenti del maestro e la possibilità per i giovani cantori di eseguirlo stando fermi, cosa che non è successa alle loro "madri", che, costrette come ovvio ad inseguirli sulla scena e quindi a corricchiare, hanno eseguito i "Razza di furfanti" con il tempo classico di tante passate esecuzioni, finendo con largo vantaggio sull’orchestra. Bene il coro del Pucciniano per sonorità, musicalità e professionalità ed un plauso speciale al maestro Roberto Ardigò.
La Boheme 65° Festival Puccini 2019 Ph. Giorgio Andreuccetti
Siamo al cast e chi mi conosce sa quanto mi pesi fare osservazioni ai cantanti perché ne conosco bene la fatica, la dedizione, l’impegno, le difficoltà e in questo caso non sono stati davvero messi nelle migliori condizioni. Conosco da tanti anni Nikola Mijailovic e lo stimo moltissimo, ma la sua apertura dell’opera è stata da brividi, con tre posizioni tecniche differenti, alcuni suoni apertissimi, altri soffocati, altri (acuti) decisamente troppo "girati".So che quell’inizio non è facile, specialmente così lento, ma l’artista non ha trovato il colore brunito che il personaggio deve avere, continuando a cambiare modo di cantare per tutta l’opera, probabilmente condizionato dall’acustica e dalla difficoltà di udire l’orchestra; spingendo un po’ sulla muscolatura ha causato piccole défaillances ben risolte con il mestiere. Non commento le difficoltà di tenuta del fiato nel duetto finale perché era troppo lento, ma mi piace sottolineare che non è mancato all’appuntamento con la frase più attesa, il "Gioventù mia", con suoni molto liberi, ma finalmente rinfrancati da un timbro sicuro.Jean-Francois Borras ha davvero una bella voce per cantare Rodolfo, ma non ne ha ancora la stabilità: dà sempre l’impressione di rischiare l’incidente, che non avviene, ma non pare a suo agio, nemmeno nell’aria dove emette un buon acuto, ma ne sfugge con troppa fretta. Scenicamente dominato dalla preoccupazione del canto e teso a capire cosa stesse facendo l’orchestra, non diventa credibile né come allegro compagnone né come innamorato. Per quanto riguarda il duetto finale con Mimì non commuove, perché la sua bella voce è tesa e preoccupata e conclude con un "Che vuol dire quell’andare e venire" privo di qualunque emozione, quasi arrabbiato con gli amici, senza basically acting art, solo preoccupato di far sentire la sua voce tenorile.
La Boheme , festival pucciniano Torre del Lago 2019
Daniele Caputo non ha il colore di Schaunard, che ha una tessitura più grave rispetto a Marcello e quindi richiede un bass-baritone, ma la sua prova è ineccepibile: bravo musicalmente, vocalmente, scenicamente, è l’unico che sembra interpretare a fondo il personaggio e non è colpa sua se la regia gli fa dire "Tra mezz’ora è morta" a distanza dagli amici e quindi forte, quando sicuramente non è il tipo di frase da far sentire ad una moribonda. Non me ne voglia George Andguladze se non posso parlar bene di lui per la seconda volta in pochi giorni: dalla sua prova la ritmica scritta da Puccini è uscita gravemente stravolta e la voce era ingolata, chiusa, repressa, faticosa anche in frasi semplici: ha disegnato un personaggio turbato perfino sul "Già sazio?- Il re m’aspetta" dove tutti i bassi di questo mondo scherzano visto che è una frase palesemente divertente e lui invece ha fatto come se stesse annunciando una tragedia per poi rimanere bloccato sulle scale senza sapere dove andare. Forse la spiegazione di tanti problemi sta nel fatto che l’artista è stato chiamato a fare due opere nello stesso tempo e non è arrivato adeguatamente preparato. Fatto sta che nell’aria, da lui sicuramente conosciuta, si è trasformato in un altro e ha cantato veramente bene, su tempi talmente lenti che avrebbero messo in difficoltà chiunque. Nella "Vecchia zimarra" ho finalmente sentito la sua bella voce ed un fraseggio elegante e raffinato.Il collaudatissimo Benoit di Claudio Ottino non ha risentito dei problemi generali dal punto di vista musicale, preciso ed efficace come sempre, mentre è stato un poco condizionato dal punto di vista scenico perché i partners sulla scena non gli hanno dato l’adeguata sponda, nell’incertezza collettiva su cosa si dovesse fare.Un plauso particolare merita Alessandro Ceccarini che, non avendo a disposizione cantabili nella parte di Alcindoro, si è guadagnato un notevole risalto con la bravura scenica ed il tempismo delle gag.
Festival pucciniano, prima di Bohème - Alfonso Signorini e Pamela Prati - foto Umicini-Che dire di Hui He? Un altro grande soprano al festival, un altro debutto, un’altra solista poco preparata. La cosa certo stupisce perché "La bohème" non è certo un titolo raro: è opera che il pubblico conosce spesso a memoria e stupisce che per i cantanti di professione non sia così. La sua voce è tra tutte la più pucciniana, morbida, ampia, con l’esperienza necessaria per ricercare dinamiche nuove ed interessanti, ma con troppi errori, forse determinati da un difficile rapporto con la buca orchestrale. Più di ogni altro collega ho avuto l’impressione che l’artista non guardasse molto il direttore, ma combattesse per chiedere o imporre tempi più mossi. Spesso entrava in anticipo sul maestro, ha cantato alcune note non esatte ed alcune ritmiche non originali e, seppure dotata di una voce da ricordare, non ha mai convinto appieno, nemmeno nelle arie.Per colpa dei pianissimi orchestrali, l’uscita di scena finale del primo atto è stata discutibile. Evidentemente non erano in grado in fondo scena di udire la fossa e, a causa di una discesa del tenore alle note originali non precisa, il soprano ha emesso una nota conclusiva acuta crescente e non sicura.Ivana Canovic è stata una Musetta mediocre, senza spunti d’eccellenza che possano far capire perché, in un ruolo dove finalmente si potrebbero impiegare giovani e brave cantanti italiane, si sia chiamata un’artista dall’estero, sicuramente non migliore di quelle di casa nostra. A causa anche di una pettinatura da nonna Abelarda, non ha potuto giocare tanto sulla sensualità, che comunque non deve essere il suo forte, ed ha creato un buon rapporto con Alcindoro, con gag riuscite per tempismo. Mai stridula, come molte sue colleghe nel ruolo, ma anzi morbida nel finale dell’aria, non ci ha regalato il filato di tradizione e comunque non è mai uscita da una prestazione di livello sufficiente.Non mi è possibile commentare la prestazione dell’orchestra del Pucciniano, della quale immagino le difficoltà.________________________________________________________________
Festival Puccini 2019 - Tosca - Jose Cura, CavaradossiI team all-stars, mi si perdoni se continuo con il paragone sportivo, sono però generalmente composti da solisti non più giovanissimi, con qualche problema di tenuta alla distanza, in genere risolto comunque con l’esperienza di palcoscenico, e con un nemico implacabile: il ricordo di loro stessi qualche anno prima, impresso nella memoria del pubblico.Può succedere così che le voci squillanti e concentrate del primo atto perdano smalto ed i loro proprietari conseguentemente fatichino e smarriscano negli atti a seguire la gioiosa baldanza iniziale.Alla fine del primo atto ero infatti entusiasta della rappresentazione, ma la gioia si è un po’ frenata nei due atti seguenti.Sul podio un sontuoso Dmitri Jurowski ha reso ancora una volta palese l’importanza di affidare una produzione ad un direttore validissimo, dal gesto sicuro e dalle idee musicali chiare e ben espresse. Sin dall’inizio ha imposto una giusta energia e l’allure di tutta l’opera, con un braccio potente, capace di condurre l’orchestra a sonorità rarefatte come ad esplosioni drammatiche.Ha dominato la grande scena corale di fine primo atto e raccontato pagine complesse come l’interrogatorio di Cavaradossi con ritmica sicura ed intensità emozionale. Gli unici momenti di scollamento con il palcoscenico, ma può capitare, sono state le due arie più celebri: "Vissi d’arte" e "E lucevan le stelle", il primo mortificato dai rallentando estremi imposti dalla cantante, il secondo troppo lento per il cantante che ha imposto ed ottenuto un immediato riassetto verso un "più mosso". Ottimo il difficile finale d’opera per scelta di tempi e chiarezza ritmica. Di conseguenza è stata molto buona la prova dell’orchestra del Festival Pucciniano, che, guidata da un simile maestro, ha regalato pagine di ottimo livello, in particolare nello squarcio sinfonico che precede il "Te Deum", e del coro del festival Puccini guidato dal maestro Roberto Ardigò. Un plauso particolare nuovamente al coro di Voci bianche del festival Puccini, meraviglioso nella complessa scena dei festeggiamenti per la vittoria delle forze reazionarie su Napoleone, e al pastorello di Anna Russo.
Festival Puccini 2019 - Tosca - Jose Cura, Cavaradossi - Davide Mura, Angelotti
L’altro diretto responsabile dell’aspetto artistico della serata, il regista Dieter Kaegi, non ha brillato meno del direttore d’orchestra. Conoscendo da molti anni la sua intelligenza e raffinatezza di interprete, la sua adesione al dramma e la sua ricerca della profondità nei personaggi e nelle situazioni, ma anche il suo amore per le regie moderne, minimaliste, un po’ "tedesche" nella gestione dello spazio scenico e nei costumi, ero curioso di vedere come avrebbe affrontato un’opera così amata dai melomani al festival Pucciniano stesso, a casa del maestro. Il suo lavoro è stato egregiamente svolto, in modo tale da soddisfare il pubblico presente; il tradizionalismo dell’ambientazione, pur nell’intrigante irregolarità dell’impianto scenico, che dava l’idea della grandeur pur fondandosi su elementi scenografici double-face estremamente pratici nei cambi di scena (con la difficile soluzione dell’apertura del fondale lacustre nella scena di Castel Sant’Angelo), non ha vincolato la sua creatività. Ha puntato intelligentemente su una recitazione realistica, autentica, aiutato dall’esperienza scenica di molti dei protagonisti, cercando di creare, sin dall’ingresso di Angelotti, un movimento che fosse strettamente connesso al dramma, senza riferimenti alle esigenze del canto. Così facendo ha stabilito, immagino in un tempo di prova non lunghissimo, relazioni credibili tra i protagonisti ed un’efficacia drammatica del gesto attoriale, inficiata solo da qualche "disubbidienza scenica" della protagonista, spesso impegnata in movimenti non congrui determinati dal canto. Josè Cura ha certamente aiutato il lavoro del regista: sin dal suo comparire in scena si è mosso da vero dominatore dello spazio, facendo poco, tutto sommato, rispetto a certe esibizioni di suoi colleghi, ma regalando un’intensità assoluta d’interpretazione anche solo con il volto e l’atteggiamento del corpo. Sulla scena c’era Cavaradossi e non un tenore che lo interpretava; era evidente la verità del suo collocarsi nello spazio scenico. Sicuro sempre vocalmente, con acuti squillanti e facili ed una prestanza invidiabile, ha interpretato un Cavaradossi turbato, che non dimentica Angelotti nascosto durante il duetto con Tosca, che non fa l’eroe nel secondo atto, che non crede all’innocente entusiasmo di Tosca nel terzo. Un personaggio vero, a tutto tondo, profondo, ragionato, credibile, vocalmente sicuro, solo con qualche lieve sbavatura di proiezione.
Festival Puccini 2019 - Tosca
Per quanto riguarda la protagonista, mi verrebbe da esordire con un "Bentornata Maria" dopo la difficile prova in "Fanciulla del west". La classe con cui ha iniziato il suo percorso nell’opera e la conoscenza della stessa, hanno da subito creato i presupposti per una performance da ricordare: voce morbida, ampia, non sforzata, credibile nel suo amore e nella sua gelosia, musicalmente ben equilibrata nel fraseggio. Maria Guleghina, nel cast all-stars, è colei che più di tutti ha dovuto fare i conti con il suo passato e l’attesa che ha suscitato nel pubblico. Il primo atto è stato eseguito con esperienza e raffinatezza: solo una gestualità in disaccordo parziale con l’impostazione registica tradiva un certo nervosismo nel sostenere l’impegno, mentre nel secondo atto si sono avvertiti i segni di una leggera stanchezza, dovuta all’impegnativo duetto con Scarpia, fino all’acuto di "Vissi d’arte" rimediato con un piano improvviso ed incongruo, classico espediente dei grandi artisti, dopo che l’impostazione tecnica della frase non le aveva consentito l’acuto naturale e semplice di tante occasioni passate. Nell’aria ha ingaggiato un duello con il maestro, imponendo un rallentamento del tempo in corsa, sicuramente efficace sul piano espressivo, ma assai impegnativo dal punto di vista esecutivo. Nel terzo atto si è avvertita poi una certa stanchezza. Che dire di Carlos Almaguer? Non voglio offendere nessuno per cui non mi voglio esporre in classifiche di alcun genere, ma il suo Scarpia è sicuramente uno dei migliori che io abbia mai ascoltato, voce potentissima, dizione perfetta, personaggio disegnato in modo impeccabile: un dominatore dal punto di vista canoro e scenico. E’ raro ascoltare un baritono che emerga nel "Te Deum" sulla massa corale al punto da essere sempre perfettamente udibile con un suono ricco di colore ed espressione, intenso, potente drammaticamente. Sulla scena è naturale, perfetto. L’unico appunto che si può fare, ed è un vero peccato, è sul vizio che ha di terminare molte, troppe frasi finendo fuori nota, in una specie di parlato, che sicuramente lo aiuta nell’interpretazione, ma che disturba l’ascoltatore, che vorrebbe ascoltare le note scritte da Puccini anche in coda alle frasi.Voce sontuosa, recitazione naturalmente drammatica, capacità di relazionarsi ai colleghi con intensità ne fanno l’interprete ideale per qualsiasi regista ed infatti il lavoro di Kaegi ne è stato valorizzato: gesti semplici, efficaci, nulla di ingiustificato, nulla di determinato da esigenze canore nei suoi movimenti sulla scena. Un interprete magnifico.Bene l’Angelotti di Davide Mura, vocalmente sicuro e scenicamente efficace. Non dimentica di essere stremato dalla fuga e dalla fame e ben si rapporta ad un Cura eccellente nel breve duetto "E’ buona la mia Tosca". Voce importante quella di Lisandro Guinis che ha interpretato in modo potente, da Scarpia quale è stato in passato, il sacrestano, facendo prevalere più la trascuratezza miserabile del personaggio sulla comicità ed assecondando così molto bene la verosimiglianza scenica chiesta dal regista. Sicuri ed efficaci lo Spoletta di Francesco Napoleoni e lo Sciarrone di Andrea de Campo. Bene anche il Carceriere di Massimo Schillaci. Splendidi come sempre i costumi della Fondazione Cerratelli, una vera eccellenza del territorio.Una serata iniziata con i migliori auspici e finita un pochino in calando per la stanchezza di alcuni interpreti, ma comunque degna del Festival Pucciniano. Questo a testimoniare ancora una volta l’importanza di una presenza valida sul podio, in un momento storico nel quale, spesso per ragioni estranee e direi contrarie alla musica, si privilegiano produzioni nelle quali il direttore d’orchestra cambia di continuo nelle repliche, andando in scena a volte con pochissime prove o nessuna. Complimenti al Festival per il suo lavoro: merita tutto il sostegno possibile; non è stato piacevole, infatti, vedere il teatro tutt’altro che esaurito, nonostante il titolo e gli interpreti così famosi; si avverte nella nostra società un disamore non verso il Festival ma verso la cultura in generale. L’opera va aiutata con la qualità e con l’amore di chi le è rimasto fedele.(fotografie di Giorgio Andreuccetti)
Autore degli articoli qui raccolti: M° Marcello Lippi, pubblicati da You-ng.it e raccolti da noi per il sito Musicainopera.