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Entusiasmo palpabile nell’Arena di Verona per la prima recita della Tosca.
La storia prende vita con la produzione, ben rodata, del regista argentino Hugo De Ana che cura personalmente ogni dettaglio dell’allestimento, ottenendo una grande coerenza stilistica ed una indubbia efficacia teatrale.
Sua la regia. Sue le scene imponenti. Suoi i costumi sfarzosi che magnificano la figura dei cantanti, e sempre suo il gioco luci che crea vivide suggestioni.
La composizione dell’immagine è affascinante.
Gli elementi sono tutti posizionati ad arte per consentire una visione d’insieme che sia utile alla narrazione senza per questo sacrificare la bellezza.
De Ana Reinventa i grandi spazi areniani con un’estetica che, nella sua dominante simbolica, mantiene inalterata l’eleganza delle forme e la fedeltà alla sostanza, e persegue una regia tradizionale su cui si inseriscono magnificamente invenzioni sceniche che non snaturano la ben nota vicenda nel rispetto dei personaggi.
Sul podio il M° Ivan Ciampa dirige l’Orchestra di Fondazione Arena con bacchetta sicura, precisione e raffinatezza stilistica.
Il coro diretto dal M° Roberto Gabbiani risulta sempre perfettamente incollato alla buca orchestrale e trionfa nel “Te Deum” che vanta un’opulenza visiva e sonora tale da galvanizzare il pubblico.
Unica scivolata nel cattivo gusto la si può rimproverare ai movimenti delle masse che all’ appressarsi del Te Deum incedono in modo lento e ciondolante.
Avrà di sicuro un valore simbolico che non ho afferrato.
Tuttavia si sorvola facilmente perché la scena che ne segue è spettacolare.
Le scene consistono in pochi elementi, esasperati nelle dimensioni, e un enorme pannello dietro il palco che a tratti si apre per lasciare intravedere nuovi ambienti.
L’Arcangelo Michele incombe sul palco brandendo l’enorme spada che prelude alla punizione divina.
Sulla destra del palco una mano di statua enorme stringe un grande rosario.
Ed è qui che si dirige un Angelotti ferito e stanco, interpretato con piglio valoroso dal basso Giorgi Manoshvili, trascinandosi alla ricerca della chiave per poi cadere esausto continuando a cantare da sdraiato, sempre perfettamente udibile. La sua voce è pastosa e il fraseggio accurato.
Il sagrestano è il bravissimo baritono Giulio Mastrototaro al suo debutto in Arena ma già veterano in un ruolo che domina sotto ogni aspetto. La voce è espressiva, la mimica curata. Sottilmente buffo nel duetto con Cavaradossi, gioioso quando invita la cantoria dei bambini del Coro di voci bianche A.d’A.Mus. diretti da Elisabetta Zucca, a festeggiare la notizia della vittoria su Napoleone, e infine terrorizzato all’arrivo del Barone Scarpia a cui cede in modo subitaneo e vigliacco spifferando tutto ciò che sa.
E allo Scarpia, interpretato dal baritono Luca Salsi, in pochi non cederebbero.
Entra in Chiesa con lo sguardo del cacciatore che fiuta la preda trascinandosi dietro una cappa di cupo terrore e i suoi intemperanti scagnozzi che irrompono distruggendo la tela su cui Cavaradossi ha dipinto l’apparizione del Cristo alla Maddalena (Una riproduzione del “Noli me tangere” del Correggio).
Luca Salsi è bravo nel delineare un personaggio complesso, subdolo, in cui la raffinatezza nei modi non è che l’anticamera dell’orrore.
La voce è teatrale e ben sostenuta accompagnata da una grande varietà di sfumature interpretative e una buona recitazione.
La tortura a Cavaradossi assaporata come un buon pasto, la tentata violenza a Tosca che si dibatte come un animale in trappola e il suo frenarsi solo per un attimo, come fa il gatto con il topo, per poi riprendere il suo gioco in maniera spietata, sono atti che lo definiscono per ciò che è: un sadico che dietro la facciata del fervente cattolico nasconde in realtà un animo violento, teso ai soprusi, e alla lussuria.
Il monologo del secondo atto è interpretato benissimo. La sua essenza racchiusa in poche parole: “Ha più forte sapore la conquista violenta, del mellifluo consenso…”.
E’ abituato ad ottenere tutto ciò che vuole per poi disfarsene. Ma alle volte anche le prede hanno gli artigli.
Ed è il caso di Tosca.
E la Tosca, al suo debutto in Arena, ha gli artigli ben affilati di Aleksandra Kurzak che dimostra di essersi impadronita del ruolo.
Alle caratteristiche principali di una voce forte e melodiosa aggiunge i toni drammatici necessari, e trova i giusti accenti veristi, centrando bene tutti gli aspetti del personaggio e dimostrando così una grande maturazione rispetto al suo debutto al Metropolitan nel 2022.
Gli splendidi costumi stile impero, uno diverso per ogni atto, ne sottolineano l’avvenenza e l’incedere orgoglioso.
Perfettamente in sintonia nel duetto del primo atto con Cavaradossi, dove ha modo di sfoderare le sue doti belcantiste si sviluppa poi in crescendo con la gelosia sfogata al cospetto della polizia.
Il suo “Non l’avrai stasera…” si conclude con un “Giuro!” declamato forte ma che non perde di musicalità e mette ancora più in risalto la mezza voce di Salsi che scandalizzato quasi sibila “In Chiesa!” e al quale lei risponde “Egli vede ch’io piango!” con un crescendo cristallino e ben timbrato.
Nel secondo atto mostra sicurezza e ammirabile tenuta dei fiati.
Il “Vissi d’arte…” è dipanato con la giusta dolcezza e disperazione e concluso con un lungo pianissimo che si innalza alla fine scatenando un meritatissimo applauso.
Applausi che si ripetono con vigore alla morte del terribile Barone e che premiano una scena veramente riuscita.
Il modo in cui la lama luccica nella mano di lei, il colpo inferto al petto di Scarpia, con gesto rapido e preciso, lui che cade rantolando e che ancora cerca di afferrarla per la gola. Un’azione frenetica, concitata, piena di adrenalina che coinvolge tutti in modo profondo.
Roberto Alagna interpreta ancora una volta il ruolo del pittore Italo-francese Mario Cavaradossi.
Un ruolo che conosce alla perfezione e nel quale si immedesima intimamente.
Passionale, ribelle, Volterriano.
Ma più di ogni cosa innamorato di Tosca, la Diva, e per lei disposto a restare a Roma nonostante i pericoli.
Alagna conferisce al personaggio spessore attraverso una recitazione spontanea arricchita da piccoli gesti che aggiungono veridicità.
Come il toccare la tela alla quale sta lavorando per assicurarsi che il colore sia asciutto, l’osservare il ritratto di Tosca con sguardo innamorato e sognante durante il “Recondita armonia”, il passeggiare nervosamente guardandosi intorno nel timore che Tosca scopra l’Angelotti.
Aggiungiamo a queste caratteristiche una presenza scenica magnetica.
Un uso sapente della propria fisicità che diventa forma d’arte, aiutato da scene che lo esaltano. Come quando all’inizio del terzo atto appare avvinghiato tra le grate della cella, il capo chino, i capelli scompigliati sugli occhi, in una posizione disperata.
Il mezzo vocale è saldo, i colori intensi, il registro acuto brillante, e la tecnica è tale da consentirgli di esibire sfoggio vocale unitamente a ricercatezza espressiva, come il finale tenuto a lungo nel “Recondita armonia”, l’acuto impetuoso nel “Vittoria!” ampiamente ostentato e il suo commovente “Lucevan le stelle” che dipinge, proprio come un bravo pittore, riuscendo a miscelare perfettamente note di dolcezza, sofferenza e struggimento e a trarre da queste infinite sfumature.
Il risultato drammatico è amplificato dall’illuminazione fioca di Castel Sant’Angelo e dalla pallida luna che timidamente si affaccia tra le nuvole.
Bravissimi anche tutti gli altri interpreti. A cominciare dai due scagnozzi di Scarpia: il tenore Carlo Bosi che interpreta uno Spoletta visibilmente intimorito e sottilmente infido, e il baritono Nicolò Ceriani nei panni di uno Sciarrone interpretato con la giusta enfasi.
Concludono il cast il Carceriere interpretato da Dario Giorgelè e il Pastorello di Erika Zaha , giovanissima voce bianca a cui è affidato lo stornello in dialetto romanesco.
La fine del terzo atto conferma la grande sintonia tra i due interpreti principali.
Lei è sicura di ottenere la libertà. Palesemente felice.
Lui ha capito di essere senza speranza ma, per amore, la asseconda.
Nel suo “Parlami ancora come dianzi parlavi..” si avverte un grido di angoscia mentre con impeto disperato l’abbraccia.
Un ultimo tentativo di tenere vivo un sogno che sa essere impossibile.
L’ultimo amplesso, gli ultimi baci alla donna che ama, prima di essere trascinato verso la croce e preparato per la fucilazione.
La tensione cresce, il rullo di tamburi incalza, l’attesa infinita tiene il respiro in sospeso.
La sciabola scende e gli spari risuonano in Arena.
Il corpo di lui si accascia tra il fumo, e l’odore acre della polvere da sparo pervade le narici e fa lacrimare gli occhi. O forse è la commozione.
Una scena filmica scandita alla perfezione che continua con lei che affronta di corsa le scale per poi apparire sulla testa dell’Arcangelo.
Si staglia contro il cielo con il suo vestito azzurro e la chioma di capelli ricci e corvini scompigliata dal vento, mentre innalza una croce.
Risponderà dunque delle sue azioni.
Ma solo davanti a Dio.
La recensione si riferisce alla serata del 29 Luglio 2023.
di Loredana Atzei