Con la serata del 21 Ottobre Si concludono le prime tre recite di Fedora in un crescendo di emozione ed entusiasmo.
Un’attenzione a questa Opera dimostrata anche dalla RAI con la trasmissione in diretta radiofonica della serata della Prima.
In merito a questo potrebbero esserci delle divergenze di opinioni tra chi è stato a teatro e chi invece ha ascoltato in radio. Ma questi ultimi dovrebbero prendere in considerazione il fatto che la ripresa audio non permette di apprezzare le diverse ampiezze di voci degli interpreti che vengono portate tutte allo stesso livello, inoltre manca la dinamica del suono che appiattisce gli armonici dando così all’ascoltatore una sensazione di piattezza, infine si penalizzano le voci ampie. E nella trasmissione radio la più penalizzata è una voce grande come quella di Roberto Alagna, che risulta veramente una spanna sopra tutti, e che risente in radio di un fastidioso vibrato che non gli appartiene nell’ascolto dal vivo.
Motivo per cui è bene rimarcare che le voci vanno giudicate sempre e solo in Teatro.
E dopo questa digressione tecnica torniamo alla serata del 21 ottobre con i cantanti che si “liberano” di una regia ingessata e si impadroniscono della scena sfruttando al meglio gli ampi spazi a livello scenografico, e avvicinandosi al proscenio, quando serve, per proiettare la voce. Una gestione accurata che consente loro di far arrivare al pubblico anche il più piccolo sospiro. La più sottile mezzavoce.
In mancanza di una regia capace di conferire spessore all’opera, dispiegarla nei suoi molteplici aspetti e mettere a proprio agio gli interpreti consentendogli una facile immedesimazione, il lavoro poggia tutto sulle spalle dei cantanti e sulla Direzione orchestrale dell’ottimo Marco Armiliato, che con mano attenta e giusta sensibilità aiuta a dipanare la storia.
Il De Siriex del baritono rumeno George Petean si attesta interprete dal timbro caldo e dal fraseggio accattivante.
Esegue “la donna russa è femmina due volte…” con elegante arguzia e un’interpretazione che accenna a un divertimento sottile. Altrettanto si rivela grave e preoccupato ne “Il vechio tigre, mortogli il figlio…” con cui riferisce a Fedora della morte del fratello e della madre di Loris.
Abile nel destreggiarsi tra battute sagaci e declamati tragici.
La voce fatica ad emergere solo nei recitativi del primo atto.
Deliziose le schermaglie con la Contessa Olga Sukarov interpretata da Serena Gamberoni con voce cristallina e ricchezza di armonici. Avvenenza e gesto atletico la caratterizzano. Vocalmente impeccabile, risalta scenicamente meglio durante la festa quando, in risposta alla descrizione divertita che fa De Siriex della donna russa, gli contrappone un ritratto musicale e frizzante per niente benevolo con “Il Parigino è come il vino della vedova Cliquot…”
Il terzo atto è una grande prova di esercizio fisico per il soprano ma il fatto di cantare annoiata sulla bicicletta non aumenta la resa teatrale ne l’aspetto comico del siparietto.
Si confermano tutti bravi i numerosi personaggi secondari a partire dal Grech autorevole e profondo del basso Romano Dal Zovo, il Dimitri del mezzo Caterina Piva che unisce un timbro caldo ad una voce ampia, il Cirillo del basso Andrea Pellegrini che interpreta con dovizia di sfumature il racconto della notte in cui viene ucciso Vladimiro, e il piccolo Savoiardo interpretato da Cecilia Menegatti che con voce sicura conclude la Montanina eseguita in modo perfetto dal Coro interno del Teatro.
Contribuiscono a dare la giusta visione d’insieme il Borov interpretato dal basso Gianfranco Montresor, il Desiré di Gregory Bonfatti, il Barone Rouvel di Carlo Bosi, il Lorek di Costantino Finucci.
Il cast si conclude con Devis Longo, Michele Mauro e Ramtin Ghazavi nei ruoli rispettivamente di Nicola, Sergio e Michele.
Inutile dire che, privati dei costumi e di una giusta scenografia, in balia di una regia piena di incongruenze, gran parte del lavoro dei cantanti si perde, a danno di una corretta lettura dell’Opera e del giusto divertimento per il pubblico.
Ma ho descritto ampiamente la messa in scena nella recensione della prima (https://www.musicainopera.com/blogmusica-e-parole/post/172649/) e non ci ritornerò su.
Importante invece sottolineare in questa terza recita la crescita dei personaggi principali.
I due protagonisti amplificano quella chimica che esiste tra loro e si ritagliano maggiori momenti di vicinanza e di intimità ottenendo un atteggiamento spontaneo che cattura e avvince fino all’ultimo gesto, fino all’ultima nota.
Ed è così che il dramma di Sardou, musicato da Giordano con grande potenza evocativa sul libretto di Arturo Colautti, conquista la Scala e trova in Sonya Yoncheva una Fedora che da prova di maturazione sul palco, recita dopo recita.
Certo, rimane una vocalità chiara che risolve con qualche suono un po’ artefatto nel registro grave, ma il tutto viene riscattato ampiamente da una voce generosa, musicale, e che esplode in bellezza nel registro alto.
Nell’aria “O grandi occhi lucenti di fede…” il timbro è omogeneo in tutti i registri, melodioso e convincente, La salita all’acuto è sicura e la frase: “Sento che qui comincia un’altra vita in me…” è rifinita con una messa in voce ispirata.
La sua Fedora è donna capace di grandi slanci amorosi, che non nasconde il desiderio carnale per Vladimiro mentre ne esalta le virtù di fronte al suo ritratto nella camera da letto. Lei non può sapere che le virtù dell’uomo che ama sono solo una menzogna. Il suo pianto a fine atto è sincero e doloroso.
Il lungo duetto del secondo atto con Loris è intenso, incalzante, luminoso. Le due voci si amalgamano bene sviluppando un’alchimia vincente.
L’interludio eseguito a sipario chiuso ( per far ruotare le scene ) penalizza l’interpretazione della cantante che non può esibirsi nella recitazione di quello che è un punto cruciale della storia.
Fedora, combattuta tra l’amore e il desiderio cocente di vendetta, decide infine di scrivere una lettera in cui accusa Loris di aver ucciso Vladimiro e fa il nome di Valeriano, suo fratello, come complice.
Un vero peccato che non le sia stato dato modo di esprimersi in questa parte importantissima dell’opera che serve a far comprendere quale dramma serba nel cuore Fedora in quel momento senza profferire una sola parola.
Il sipario si riapre dunque con lei che consegna a Gretch la lettera di denuncia assicurandosi che al segnale concordato rapiscano Loris e lo conducano alla nave “Elisabetta” che è suolo Russo. Operazione necessaria, il rapimento, perché la Francia non concede estradizione agli esuli politici.
Inquietanti gli uomini vestiti di scuro che si aggirano per la Villa. Uno dei pochi elementi davvero efficaci della regia di Mario Martone perché fa ben comprendere il pericolo in cui incorre Loris senza esserne consapevole.
Messa di fronte alla verità, in seguito alla confessione di Loris che ammette di aver ucciso Vladimiro dopo averlo scoperto in compagnia di sua moglie, lei finalmente cede all’amore e lo consola.
In “Un’altra madre tra le mie braccia avrai.” la parola è scandita con attenzione a testimonianza di un lavoro continuo e uno studio attento della dizione.
L’ultimo atto è un susseguirsi di emozioni forti. Si passa velocemente dalla tenerezza con Loris, al senso di colpa nell’apprendere che, a causa della sua delazione, il fratello di lui e sua madre sono morti.
A quel punto la disperazione e il terrore invadono il suo animo. La disperazione di perdere Loris. La paura di essere da lui uccisa.
La Yoncheva pronuncia il suo nome in, “Loris, mio Loris! Amor mio santo!...”con voce morbida e colma di una tenerezza palpabile.
Nel lungo duetto finale non perde mai in musicalità. Né negli accenti drammatici risolti con brillantezza, né nelle parti più liriche dove dipinge una donna vinta, privata della sua fierezza che implora pietà in “Loris io ben ti conosco…”, fino a trovare nella morte l’unica soluzione.
La recitazione ci restituisce una donna altera ma anche passionale. Votata alla vendetta ma anche capace di innamorarsi perdutamente. Devastata dai sensi di colpa, disperata nel chiedere perdono, commovente nell’ora della morte. In perfetta sintonia con il suo partner sulla scena.
Un Roberto Alagna fascinoso, magnetico e seducente, nel ruolo del protagonista maschile. Un Loris Ipanov animato da ardente passione, straziato dal dolore che trasforma la sua sofferenza in inaudita ferocia.
La voce è grande, udibile perfettamente ad ogni distanza in quello che è un palco enorme con le scene molto lontane dal podio.
Capace di sovrastare le voci dei colleghi nei concertati ed emergere con incredibile forza anche durante i potenti “crescendo” orchestrali.
Il suo canto, rispetto alla prima è più accurato nelle sfumature, più generoso.
Accende subito l’entusiasmo con una bellissima esecuzione di “Amor ti vieta…” dai tempi larghi e, sulla parola “T’amo…” sostenuta a lungo, rifinisce modulando il suono sul fiato, in un canto di vibrante passione.
Per poi commuovere con il racconto nel secondo atto “Vedi, io piango…”.
Le lacrime si inframmezzano a tenere mezze voci nel ricordo della madre in “…quei dolci occhi morenti…” per poi aumentare con “socchiuder non potrò…” e, al colmo della disperazione, sfociare in un pianto lacerante.
La conclusione “Vedi io piango… ma se piango…no, non è il pianto mio viltà!” avviene con le note sul finale di frase tenute lunghissime e sempre sfumate con una messa in voce morbida e ricca di sofferenza.
Il duetto di fine atto è l’occasione per i due interpreti di sfoggiare acuti taglienti come lame e brillanti come l’oro.
Il sipario si chiude con loro due avvinti in un abbraccio carico di amore e sensualità.
Nel terzo atto la tenera spensieratezza degli amanti viene presto trasformata in tragedia dalla lettera di Borov che annuncia la morte del fratello e della madre di Loris.
Il pianto accorato di Loris nel venir a conoscenza della morte dei suoi cari, le note dolenti dell’uomo affranto, sopraffatto dalla tragedia, che cerca conforto in quel lacerante grido d’aiuto “Oh non lasciarmi, sola mi resti…dammi la mano…Piangi con me!..”, e infine la rabbia nello scoprire che colei che lo ha tradito è la donna amata.
Tutto è riassunto in un canto emozionante, una recitazione aderente al personaggio, in una morbidezza del suono emesso e in un controllo totale che gli consente esplosioni nel registro acuto e diminuendo di rara bellezza.
Infine rendendosi conto che Fedora si è avvelenata si rivolge a Borov implorando di salvarla “Soccorrila Borov…in nome del ciel!” con una emozionante conclusione in pianissimo.
Artista sensibile, accorto, meticoloso non manca di sottolineare l’ultima frase con un canto che trafigge il cuore “Son qui vicino a te, per darti il mio perdono…” alternando note lunghe al finale smorzato e suscitando accorata compassione, mentre conclude la scena con un ultimo bacio sulle labbra ormai esanimi della sua amante.
Il Teatro è in delirio.
Oltre sei minuti di applausi, solo applausi, accolgono gli artisti che escono a salutare un pubblico entusiasta e visibilmente emozionato.
I coriandoli dorati che piovono dalla Barcaccia concludono una serata memorabile e suggellano il successo di una Fedora che ha una sola pecca nell’assenza di scene e di costumi appropriati in grado di renderle giustizia.
E c’è da sperare che prima o poi accada.
di Loredana Atzei
Il trailer ufficiale del Teatro alla Scala dedicato alla Fedora
Il libretto di sala dell'opera